Nelle brume dei campi, fra quelle distese di pioppi ai margini del fiume, dove spuntava un campanile c’era la vita, c’era l’odore del pane e un’aria di Giuseppe Verdi. E c’era un postino. Il rumore borbottante del suo motorino rosso sempre lucido e ripulito era inconfondibile, e il mio amico Beppe diceva che lo sentiva arrivare già prima dell’ultima curva, con la sua bella divisa d’ordinanza, una grisaglia avio confezionata in piazzetta Nogarola a Verona, camicia azzurra e cappello col logo PT Poste e Telegrafi, e due grandi bisacce appoggiate dietro, una per i pacchi e l’altra per la corrispondenza. Allora scrivevano le lettere. Erano i tempi di “Pane, amore e fantasia”, Gina Lollobrigida e Vittorio De Sica. A volte il postino doveva leggerle lui, perché molti erano analfabeti. Era come il prete che raccoglieva le confessioni, come il carabiniere che sapeva tutto di tutti. Era così tanto uno di famiglia che, nelle piane del Po, i contadini lasciavano il fiasco di lambrusco sulla tovaglia cerata del tavolo della cucina, con il bicchiere rovesciato, a significare che non ci aveva bevuto nessuno. Il postino posava il motorino sull’aia spegnendo quel rumore affaticato, entrava nella casa vuota e metteva le lettere in ordine sulla credenza. Poi si versava il lambrusco e lo beveva seduto.

Come i muri della chiesa
Oggi, Pamela, che vede il mare a Capalbio, e il tramonto dall’ultima spiaggia, dice che il mondo è cambiato, e non c’è più tempo per fermarsi come si faceva tanti anni fa, perché bisogna correre. Però si ricorda di una signora, che abitava in quella parte di campagna dove le case fatte dall’Ente Maremma avevano il forno in comune per cuocere il pane e la vasca dell’acqua per fare bere le bestie, e che doveva pagare il bollettino alla posta e le chiese se per favore glielo pagava lei, perché non stava più bene e non poteva muoversi: “Ti do i soldi, ci puoi andare tu?”. Quando Pamela tornò indietro con la ricevuta, lei le diede un sacchetto di uova fresche. Il fatto è che nel mondo nuovo, il postino è una delle poche figure che ha conservato ancora il romanticismo del passato. Non a caso si chiama portalettere, anche se le lettere non le scrive più nessuno. Le lettere erano un modo di viaggiare, quando non c’era internet e televisioni ce n’erano poche, erano come un telefilm da ridere o da piangere. Oggi consegna le bollette del gas, dell’acqua, dell’energia elettrica, l’estratto conto bancario, la Tasi, l’Imu, i contratti di lavoro, le raccomandate con la nuova patente, le multe, e chissà quante altre cose così. Però lui è rimasto come un tempo, in tutti questi paesi svuotati dalla corsa all’esistenza. Annunziata, che fa la postina da 32 anni ad Antrodoco e Borgo Velino, provincia di Rieti, dice che lei conosce tutti, “e anche se l’indirizzo è sbagliato la posta gliela porto uguale e alle vecchiette che dicono di non vederci, le bollette gliele leggo sempre io. Non potrei andar via da qui, ormai sono come i muri della chiesa, come l’albero storto che vedi dalla strada tutte le volte sempre lì, come le pietre del selciato, appartengo a questo paese”. Come Pasqua, che lavora a Guardalfiera, Termoli, e cerca di spiegarti che è come “Benvenuti al Sud, l’ha visto il film? Ecco è così. Prima del virus, la gente ti ospitava, ti invitava a mangiare con loro. Li incontri per strada, ti chiedono la posta, tu lo sai e l’hai già messa da parte. A Sant’Antonio, ti dicono vai dalla Maria che sta facendo le friselle, e quando arrivi li trovi attorno alla pentola di olio per friggere la focaccia e ti offrono da bere. Dietro alle porte lasciano ancora le chiavi. Aspettano che tu apra e consegni le bollette o quello che hai. Io all’inizio ero stupita da questa fiducia. Poi ho capito. è un mondo diverso, questa non è la città. Non rovinateci, vi prego. Lasciateci così”.

“Il rapporto con le persone è fantastico”
E questi racconti si ripetono quasi dappertutto. Lorenzo, Lecce nei Marsi, L’Aquila, spiega di sentirsi persino un elemento aggregante della comunità, “perché c’è un rapporto di confidenza molto profondo, mi chiedono favori, di lasciare la raccomandata da un altro parente, e se ti vedono che manchi qualche giorno, si preoccupano subito, quando non telefonano per avere tue notizie”. Certo, la divisa è cambiata, non è più quella grisaglia storica che qualche contadino la chiedeva pure in regalo, “tanto a te la cambiano ogni anno, no?”. Francesca, Civitella d’Agliano, Viterbo, arriva con i suoi pantaloni blu, maglietta polo e camicia a righe, il giubbotto fluorescente, sulla Panda bianca con la scritta Poste Italiane, che posteggia nel centro storico. Lì vicino c’è la signora Rosa, sempre seduta sulla stessa panchina, sopra la Chiesa, che prende la posta per lei e per il prete, don Massimo. Ogni mattina il giro comincia così. “E non potrei farne a meno. Questa terra è la mia terra”. Alberto, a Torano Castello, Cosenza, dopo 12 anni a Fagnano Castello, più o meno dalle stesse parti, ha cambiato paese e persone, ma le abitudini sono sempre le stesse e allora ripete che “fare il postino è un lavoro bellissimo, perché avere il rapporto con le persone è fantastico”. Il rapporto può essere così forte che può capitare anche qualcosa di strano, di trovarsi catapultati come in un film di Jean Pierre Jeunet, a cercar di rimettere le cose a posto. Monia è stata destinata a far la postina a Davoi, in provincia di Nuoro, paese antico arroccato su una montagna, e quando arriva con il suo Fiorino e si inoltra a piedi per le viuzze strettissime, le succede che non trova mai le persone a cui consegnare la posta: hanno cambiato casa da un mucchio di anni, ma non c’è stato mai bisogno di farlo sapere nemmeno all’anagrafe. Il postino che c’era prima consegnava la posta a una persona, non a un indirizzo, e sapeva sempre dove trovarla. Ma lei è nuova e non conosce nessuno e vorrebbe rimettere le cose al loro posto e rispettare le regole: “Sono andata in Comune e mi hanno detto, che problema c’è? Qui tutti sappiamo chi sono e dove stanno. Il resto non conta. Io dovrei conoscerli tutti per nome, ma come faccio? Gli dico che devono cambiare, ma non c’è niente da fare. Alla fine sono io che mi devo adeguare e poco per volta comincio a cercare le persone e non gli indirizzi”.