“Il lavoro dà dignità, offre la possibilità di tornare a mantenere i figli e di rimettersi in un contesto di solidarietà grazie ai colleghi”. L’iniziativa di Poste Italiane per il reinserimento lavorativo delle donne vittime di violenza “è un’ottima azione”, secondo il professor Claudio Mencacci, presidente del Comitato tecnico scientifico di Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna) e Past President della Società Italiana di Psichiatria. “Ricollocare in uno spazio sicuro le vittime è un atto concreto e importante perché le violenze si portano sempre dietro conseguenze sociali come la perdita di lavoro, della casa, la ridotta capacità di mantenere la famiglia, la difficoltà interpersonale e l’isolamento”.
Professor Mencacci, partiamo dalla definizione: che cosa si intende con violenza di genere?
“Vale la pena prima di tutto soffermarsi sui falsi miti che circolano intorno alla violenza di genere: non è vero che si manifesta solo in contesti familiari poveri, non è vero che è causata da sostanze stupefacenti e alcol, non è vero che alle donne piaccia essere picchiate dai loro compagni. Mi sta molto a cuore smentire questi luoghi comuni: i comportamenti violenti non si ereditano geneticamente, non sono causati da malattie mentali, non sono il risultato di stress o rabbia, non sono dovuti a un cattivo temperamento, non sono conseguenza di comportamenti della vittima e non sono un problema di relazione”.
Che cosa c’è allora dietro alla violenza di genere?
“È un comportamento appreso: è la manifestazione di una relazione abusante basata sulla credenza sbagliata che una persona abbia il diritto di controllarne un’altra ed esercitare il potere ai suoi danni. È molto importante sottolineare questo aspetto: perché “comportamento appreso” significa anche che viene acquisito dai figli quando osservano”.
Che caratteristiche hanno gli abusi?
“Ci sono diversi tipi di violenza: fisica, sessuale e psicologica. E aggiungerei la violenza economica, cioè la privazione dei mezzi necessari al mantenimento della propria indipendenza. Poi ci sono i comportamenti persecutori che ormai conosciamo tutti con il termine stalking. La violenza è sommersa, trasversale, continuativa e procede a cicli, sia in termini di reiterazione della condotta sia in alternanza con altre condotte oppressive. Il ciclo dei maltrattamenti è sempre uguale: crescita della tensione, esplosione della violenza, scuse e rimorsi a cui segue una luna di miele, che presto si conclude per poi sfociare in un nuovo ciclo. Abbiamo calcolato che ci vogliono dai cinque ai sette cicli prima di riuscire a denunciare. Purtroppo, in tanti casi, questo non accade mai. Noi lavoriamo per sensibilizzare le donne sul fatto che non può esserci reale redenzione nell’autore di un comportamento che tenderà a ripetersi”.
Perché è così difficile denunciare?
“Spesso è colpa dell’isolamento. Sono donne che, proprio in virtù di quello che subiscono, hanno una bassa stima di loro stesse. Spesso ci sono di mezzo i figli piccoli, le promesse di matrimonio, la paura di sentirsi in colpa, la vergogna. Ma soprattutto c’è il malsano ottimismo che il partner abusatore possa cambiare”.