“Il giorno in cui ho deciso di andare, quel 21 febbraio, mentre ero in macchina verso il lavoro, alla radio ho sentito del primo caso a Codogno e ho pensato che di tutti i posti proprio lì… Quando sono arrivata in ufficio ho iniziato a cancellare tutti i distacchi e sono arrivate le prime telefonate dei colleghi inizialmente preoccupati. La mattina seguente sono andata lo stesso a lavorare senza rendermi conto che fosse sabato, perché stava succedendo l’apocalisse. Dovevamo ricollocare risorse che non c’erano. Ho preso le chiavi degli Uffici Postali e ho iniziato a girare quelli a ridosso della zona rossa per aprirli: ci ero sempre andata quando c’era necessità, a maggior ragione aveva senso farlo in quel momento. Poi mi è venuto naturale andare anche in quelli della zona rossa. Nessuno me lo ha chiesto, è stata una scelta mia”. Ecco Valeria, Operatore in capo a Gestione Operativa della filiale di Lodi, che si è resa disponibile come sportellista e direttore di Ufficio Postale nella zona rossa, come aveva sempre fatto, sfidando l’epidemia.

Il senso di appartenenza
“In quei paesi abbiamo portato normalità dove era stata portata via – rievoca – I clienti mi dicevano: “Signora, ma lei è venuta qui lo stesso?”. Io rispondevo che quello era il mio lavoro”. Spirito temerario per Valeria, che ammette di avere avuto “più paura nella zona gialla che in quella rossa, perché in quest’ultima tutti erano con la mascherina, tutti si proteggevano, tutti avevano una percezione del pericolo”. Un’attitudine personale sostenuta da qualcosa che proprio Valeria evidenzia: “In Italia abbiamo come vizio la critica nei confronti del datore di lavoro. In questo caso, io sono stata fiera di appartenere a Poste Italiane. Ci hanno assistito, ci hanno protetti, non ci hanno lasciati mai soli. In quel frangente drammatico, è aumentato il senso di appartenenza a Poste”.