Gabriele D’Annunzio ed Elvira Paternali si conoscono a Roma il 2 aprile 1887, a un concerto in un circolo artistico di via Margutta. Lei ha 25 anni, è affascinante, intelligente e delusa dal matrimonio con Ercole Leoni – conte bolognese con un discreto patrimonio – ormai naufragato dopo un aborto che l’aveva resa sterile. Anche D’Annunzio è sposato, ha due figli e la moglie – Maria Hardouin di Gallese – è in attesa del terzogenito. Ma questo non impedisce al principe di Montenevoso di frequentare altre donne, come successo in passato. Con Elvira, che lui ribattezza Barbara, intrattiene una fitta corrispondenza epistolare per i cinque anni della loro storia d’amore clandestina.
«Il mio dolore è cosí grande che da ieri io vivo quasi incosciente delle cose della vita, chiuso in me, col pensiero, col desiderio acuto e incessante del tuo amore. Quando io ti lasciai jeri, mi si velarono gli occhi. Mi parve d’esser per cadere. L’angoscia mia cresceva ogni ora piú. Andavo per le vie, mentre la sera scendeva, portando miseramente la mia gran tristezza in mezzo alla gente. Mi avvicinai due o tre volte alla tua casa. Mi si affacciavano alla mente i pensieri piú strani e i propositi piú folli. Verso le dieci incontrai gli amici che mi trassero con loro, al solito luogo, da Morteo, dove ti ho veduta per tante sere e dove ho bevuto l’amore dai tuoi occhi lungamente. Avevo la gola cosí serrata e cosí riarsa che non m’era possibile profferire una sola parola. Quegli ultimi trentacinque minuti, prima dell’ora precisa della tua partenza, furono atroci. Io non ti so dire come soffrivo, Barbara. Tu partivi, tu partivi, senza ch’io ti potessi vedere, coprirti di baci la faccia, ripeterti ancora un’ultima volta con la voce soffocata: “Ricordati! Ricordati!” Oh amica mia, tu dovresti amarmi sempre sempre e con infinita tenerezza, soltanto per ricompensarmi di quei momenti supremi di spasimo non mai provati! […] Addio, addio. Amami, amami. Tutti i moti dell’animo tuo, tutti tutti i tuoi pensieri e i sogni sieno per me, tutti tutti tutti»
I pensieri per Josè
Molti conoscono la lunga relazione che legò la pittrice messicana Frida Kahlo al collega connazionale Diego Rivera. Una storia tra luci e ombre, tra le cui pieghe si era insinuato il rapporto clandestino tra lei e José Bartoli, affascinante illustratore catalano. I due si conoscono a New York nel 1946, nell’ospedale in cui Frida è ricoverata per l’ennesimo intervento alla spina dorsale e dove José – che ha prestato servizio per la Repubblica durante la Guerra Civile spagnola – è finito dopo la fuga da un campo di concentramento nazista. Tra loro nasce un sentimento testimoniato da uno scambio epistolare che si protrae senza interruzioni fino al 1949. Oltre cento pagine in cui lei si firma Mara, diminutivo di “maravillosa”, come il suo Josè ama chiamarla.
«Voglio darti i colori più belli, voglio baciarti. Voglio che i nostri mondi da sogno siano uno solo. Vorrei vedere dai tuoi occhi, sentire dalle tue orecchie, sentire con la tua pelle, baciare con la tua bocca. Per vederti dal di sotto, vorrei essere la tua ombra nata dalla suola del tuo piede, che si estende lungo il terreno su cui cammini. Voglio essere l’acqua che ti lava, la luce che ti dà forma, vorrei che la mia sostanza fosse la tua sostanza, che la tua voce uscisse dalla mia gola così che tu mi accarezzassi da dentro… nel tuo desiderio e nella tua lotta rivoluzionaria per una vita migliore per tutti, voglio accompagnarti e aiutarti, amarti e nella tua risata trovare la mia gioia. Se a volte soffri, voglio riempirti di tenerezza così che tu ti senta meglio. Quando hai bisogno di me, mi troverai sempre vicino a te. Sempre aspettandoti. E vorrei essere leggera e soffusa quando vuoi restare solo».