Ai tempi delle Regie Poste l’introduzione del lavoro femminile segnò una svolta epocale, mentre durante la Grande Guerra le impiegate sostituirono gli uomini chiamati al fronte, ricoprendo incarichi di responsabilità. Oggi dirigono il 59% degli Uffici Postali all’interno di un gruppo che si conferma all’avanguardia per le pari opportunità. Forse tra qualche anno a nessuno verrà più in mente di contare il numero delle donne occupate e di confrontarlo con quello dei maschi. O di calcolare il gap salariale tra loro. O di pensare che il genere di una persona sia più importante del colore dei suoi occhi. In attesa di quel giorno – che segnerà una svolta nella storia del costume e dei diritti – oggi osserviamo che in Italia il divario occupazionale tra donne (31 milioni totali) e uomini (29,5 milioni) è tra i più alti in Europa, secondo solo a quello di Malta (dati Eurostat). Da noi lavora il 49% delle donne contro il 67% degli uomini. Nove milioni di donne contro tredici milioni di uomini. Le donne guadagnano meno e in genere non fanno carriera. Delle donne si parla ancora come di una categoria protetta e il loro sesso è per definizione debole.

L’esempio del Gruppo
Questo è lo scenario che consente di apprezzare il fatto che in Poste Italiane – azienda di punta del sistema Paese – il 55% della forza lavoro sia rappresentato da donne. Sono 69 mila e dirigono il 59% degli oltre 12.800 Uffici Postali con punte che superano il 70 per cento in regioni come l’Emilia Romagna (77%) e il Piemonte (74%). È donna il presidente del Gruppo, Maria Bianca Farina, così come il 44% dei componenti del CdA, contro una media europea del 31%. È donna il 20% delle posizioni Executive, rispetto al 15% degli altri Paesi Ue. Il feeling ha radici antiche. È il 1863 quando nelle Regie Poste viene introdotto il lavoro femminile, una rivoluzione per l’epoca. Le donne vengono inserite nell’organico dell’Amministrazione prima come telegrafiste, poi, dal 1865, anche come impiegate, ma sempre come personale “ausiliario”, “avventizio” e “supplente”. Per essere ammesse all’impiego devono essere vedove, orfane o sorelle nubili di impiegati meritevoli deceduti.

Le donne nella storia di Poste
A Napoli c’è un’impiegata dei Telegrafi che si chiama Matilde Serao, destinata a diventare una grande scrittrice, oltre che la prima donna a dirigere un quotidiano. Dal 1874 al 1877 lavora nell’ufficio ospitato nel Palazzo Orsini di Gravina, esperienza che racconta nella novella “Telegrafi di Stato”. È un ritratto della comunità femminile di fine Ottocento e anche di una nascente deontologia professionale: “Ricordatevi, signorine – dice la direttrice alle impiegate – che con giuramento avete promesso di non rivelare il segreto telegrafico: il miglior mezzo, è di non interessarvi punto a quello che i privati scrivono nei dispacci”. Qualche anno dopo, ai tempi della Grande Guerra, sono almeno 13.000 le donne impiegate, a vario titolo, nel settore delle Poste, dei Telegrafi e dei Telefoni. Gli uomini sono al fronte e le donne li sostituiscono. Le più capaci vengono promosse al rango di responsabile dell’ufficio, di “gerente”, o si vedono affidare oltre al proprio lavoro di impiegata anche quello del direttore, naturalmente con un salario inferiore a quello dei loro parigrado maschi. Al termine della guerra le donne tornano al loro ruolo di “supplenti”. È più o meno quanto accade anche a Teresina, sorella di Antonio Gramsci, assunta nel 1915 nell’Ufficio Postale del suo paese, Ghislara in provincia di Oristano. Sono anni di scioperi e manifestazioni ai quali aderirà anche Teresina Gramsci che così ricorda: “Era il 1918. (…) Fu proclamato uno sciopero nazionale e ottenemmo dei miglioramenti per supplenti e fattorini. Io non aprii l’ufficio, lasciai sulla porta un cartellino dove c’era scritto Chiuso per sciopero”.