Sportivo, stratega, filosofo, storyteller, motivatore: ci sono tanti modi per definire Mauro Berruto, coach della Nazionale maschile di pallavolo tra il 2010 e il 2015 (bronzo olimpico a Londra) dopo aver allenato quella finlandese, oltre ai migliori club in Italia e Grecia. Nel 2019 ha pubblicato il saggio “Capolavori. Allenare, allenarsi, guardare altrove” e oggi veste spesso i panni dell’inspirational speaker su temi legati alla formazione e allo sviluppo delle risorse umane, al teambuilding, al riconoscimento e alla realizzazione del talento, al change management. Insomma, nessuno meglio di lui conosce il valore del gioco di squadra.
Valori come lo spirito di squadra e il senso di appartenenza sono ormai entrati a far parte della cultura delle aziende più all’avanguardia. Quali sono i punti di contatto tra due realtà apparentemente così distanti come il mondo dello sport e quello delle organizzazioni?
“La pallavolo, dove ho esercitato l’importanza e la bellezza del concetto di lavorare in squadra, è l’unico sport in cui il passaggio è obbligatorio per regolamento. Al contrario del basket, del calcio e di tutti gli altri sport in cui è sempre possibile che un singolo incida in maniera decisiva sul risultato grazie al suo talento o a un momento di grazia, la pallavolo costringe tutti i giocatori a compiere un gesto tecnico sempre in relazione a qualcosa che un compagno ha fatto prima o farà dopo. Nella pallavolo, il campione non può incidere in maniera individuale ma è quello che meglio degli altri mette a disposizione le proprie capacità per la squadra. Se si sostituisce la parola squadra con la parola organizzazione il parallelo è evidente: se il singolo mette a disposizione il suo talento per migliorare il modello di cui fa parte il suo talento non viene svalorizzato, serve a far crescere la qualità dell’intera organizzazione. E questo vale anche per chi riveste ruoli apparentemente più umili, nel cosiddetto dietro le quinte. Questo “egoismo di gruppo” trova il suo massimo compimento quando si verifica un allineamento tra la realizzazione del singolo e gli obiettivi dell’organizzazione”.
Come si convince il singolo dell’esistenza di questo vincolo?
“È fondamentale che sia lui stesso a capire di essere fondamentale per il gruppo. Mantenendo la metafora sportiva, se il fisioterapista – che svolge un ruolo “nascosto” – la sera prima della partita riesce a trattare la spalla di un giocatore, sarà lui stesso a dover riconoscere che il suo lavoro è servito a vincere la partita il giorno dopo. Se ci si sente fondamentali si attiva un circolo virtuoso per tutta la squadra”.
Come si adegua a questo obiettivo il modello di leadership?
“Per rispondere non si può prescindere da quello che sta succedendo. Ci troviamo in una terra di mezzo, stiamo compiendo una traversata che non sappiamo quanto durerà e dove ci porterà. Sicuramente in una realtà nuova in cui ogni leader avrà a che fare con quattro caratteristiche: in primo luogo, ci sarà una enorme rivalutazione della qualità etica, quello che in inglese chiamano standing, il modo in cui ci si pone di fronte alle squadre e ai processi che si vogliono guidare; la seconda necessità sarà quella di valorizzare le competenze dei propri collaboratori; infine, saranno premiati quei leader che sapranno scegliere molto bene i loro collaboratori. Da direttore tecnico delle nazionali, ho sempre cercato di circondarmi dei migliori professionisti al mondo. Il mestiere del leader è raccogliere le migliori informazioni possibili, attraverso persone che hanno competenze specifiche e sono libere da condizionamenti. Il leader deve mantenere una visione globale che permetta poi di prendere decisioni. Una quarta caratteristica del leader del futuro sarà la vicinanza, il dimostrarsi empatici senza perdere l’altezza del proprio compito, la capacità di dimostrare “grace under pressure”, come un personaggio di Hemingway”.
Che cosa ci sta insegnando oggi la pandemia?
“Principalmente, che nessuno si salva da solo, che bisogna sostituire l’io con il noi e che il pensiero plurale può portare a risultati incredibili. Un esempio su tutti è la maschera di snorkeling di Decathlon adottata come respiratore nelle terapie intensive: chi ha avuto l’idea si è rivolto a una startup di stampanti 3d che ha realizzato una valvola da montare al contrario; insieme hanno presentato il progetto a un medico che era alle prese con l’emergenza sanitaria. Tre competenze, appartenenti a mondi diversi, si sono messe insieme per risolvere un problema enorme in tempi rapidi e a costi bassi. Uno senza l’altro non avrebbero ottenuto lo stesso risultato. E questo è successo a Brescia nel momento più devastante della pandemia, non nella Silicon Valley o in qualche centro di ricerca isolato dalla realtà”.
Un leader e la sua squadra come devono approcciare questi problemi?
“Anche dal punto di vista linguistico è fondamentale un ribaltamento. Chiamarli “problemi” significa fermarsi a una lamentela rispetto a una situazione che non si aspettava o che non ci meritavamo. L’astronauta che deve lasciare la navicella spaziale non può pensare che la mancanza di ossigeno sia un problema, è il contesto in cui si trova che metterà in moto la sua curiosità, la sua intelligenza e la sua scienza. Solo così potrà ritornare vivo all’astronave. Se noi chiamiamo “contesto” il mondo nuovo che ci circonda usciamo dalla sfera del giudizio e impieghiamo tutte le energie che abbiamo per trovare soluzioni. Dallo sport, ho imparato che tu puoi aver preparato la partita in modo impeccabile ma non sarà mai come te la aspettavi. All’allenatore, al leader, spetta il compito di trovare soluzioni alternative a gara in corso. È importante avere una base solida per poi essere liquidi, flessibili, nelle scelte che si compiono in partita e credo che questo principio sia valido in ogni campo: il business, lo sport, la scuola, il cinema, il teatro. Dalla solidità che abbiamo nasce la capacità di rimettere in discussione i nostri stessi convincimenti”.
Che tipo di squadra è Poste Italiane?
“Ho conosciuto la squadra di Poste Italiane durante alcuni roadshow che mi hanno portato in giro per l’Italia. Il valore di vicinanza che Poste ha con il territorio è un patrimonio inestimabile per il nostro Paese. Chiunque “indossi la maglia” di Poste Italiane deve ricordarsi che nel suo presidio territoriale rappresenta l’azienda. Quando si va a uno sportello, in una sala consulenza o si riceve un pacco da un portalettere ci si confronta con Poste Italiane e vorrei, da cittadino, che fosse chiaro il compito altissimo di interlocuzione e di responsabilità che tutti i dipendenti di Poste hanno nel difendere questo valore. È importante per il senso di identità ma anche per l’opera di ricucitura di una nazione alle prese con degli strappi”.