È rimasto un unicum nelle storie d’amore. Un grido di rivolta nel conflitto tra il personale e il sociale dell’amore. Tanto passionale e infelice tra un filosofo celebre e un’adolescente di raffinata cultura, da ispirare capolavori a Dante e Shakespeare. Indimenticabili restano i drammi di Paolo e Francesca e di Giulietta e Romeo. “Mai – conclude la – la tragedia – vi fu storia così piena di dolore come questa di Giulietta e del suo Romeo”. E invece un Epistolario di otto lettere in latino tra due amanti reali, giunto sino a noi dal XII secolo, narra una storia d’amore totalizzante che la cattiveria umana trasforma in dolore struggente. Protagonisti Pietro Abelardo, il filosofo più acuto del suo tempo, idolo di stuoli di studenti e la sedicenne Eloisa, di rara bellezza e raffinata cultura nonostante i tempi inclementi verso le donne. La loro storia d’amore (38 anni lui, 16 lei) è raccontata nei particolari dallo stesso Abelardo nella lettera a un amico anonimo dal titolo eloquente: Historia calamitatum mearum, “Storia delle mie disgrazie”. Il racconto dell’ex amante, pervenuto nelle mani di Eloisa, rinchiusa in monastero per sfuggire alle ire dei parenti, è motivo per riprendere le fila di un amore interrotto dalla malvagità di uomini che, per sfregio, avevano evirato Abelardo.
Certezze e sospetti
Il carteggio evidenzia due diversi modi di amare. A un Abelardo pentito, quasi estraniato dalla passione che lo aveva divorato rovinandogli la carriera accademica, fa da contrappunto un’Eloisa di una forza morale sconvolgente, superiore alla sua età e ribelle all’ipocrisia del tempo. Ipocrisia che le generazioni si trasmettono ancora oggi specialmente nell’ambito del sesso e dell’amore. L’amore agognato si teme quando diventa scomodo, tanto da sacrificarlo alle proprie convenienze. Specialmente nella II e nella IV Lettera, Eloisa da allieva diventa maestra di vita del filosofo deluso e provato dalla vita. Sono vere sferzate al maschilismo, come diremmo oggi, che si annida perfino nelle pieghe religiose dell’anima. Abelardo si castra spiritualmente pur di apparire pentito, mentre è cosciente di non vivere bene separato da Eloisa. Lei è rimasta la vestale di un amore avversato dai canoni civili e religiosi dell’epoca. Vive rassegnata la sua infelicità, nel monastero senza vocazione perché Abelardo è rimasto il suo amore. Lui vive il ricordo dell’amore con Eloisa come colpa da espiare; lei rassegnata a patire l’esperienza monastica imposta, con il cuore sempre vicino all’uomo amato. “Ma Dio lo sa – grida Eloisa – che, in ogni momento della vita, temo ancora di offendere più te che Dio; desidero ancora sempre compiacere più te che lui. Non è stato l’amore per Dio, ma il tuo ordine, a farmi prendere i voti. Ed ora se dovrò concludere che ho sopportato tutte queste sofferenze inutilmente, la vita che conduco non può che essere infelice, anzi la più infelice di tutte ed in futuro non potrò aspettarmi nessuna ricompensa”. Vuol saper se nel cuore di Abelardo ci sia ancora posto per lei. Teme la conferma dei suoi sospetti: “Tu stavi con me, più per concupiscenza che per amicizia, più per ardore di libidine che per amore” mentre io “non ho mai cercato nulla in te, Dio lo sa, se non te; desideravo semplicemente te, nulla di tuo. Non volevo il vincolo del matrimonio, né una dote […] Se Augusto, signore del mondo, si fosse degnato di offrirmi l’onore del matrimonio e mi avesse donato, per l’eternità, l’intera terra, anche allora mi sarebbe sembrato più dolce e degno essere chiamata la tua meretrice piuttosto che la sua imperatrice”. Solo la morte ha ricomposto e riavvicinato le loro anime e i loro corpi.