“La pandemia non è una livella come la morte. È un’altra cosa, che è stata diversa per ognuno di noi e che non ci ha reso tutti uguali alla fine”. Quello che ha cambiato cominciamo appena a intravederlo adesso. Il Covid ci ha allontanato dai luoghi. Ma non ha allontanato solo noi, li ha svuotati anche della frenesia e della confusione della società di massa, dei suoi orpelli leziosi, dei suoi rumori assordanti. Ed è vero, come dice Massimo Gramellini, che ci ha cambiato tutti in maniera differente l’uno dall’altro. I luoghi abbandonati magari hanno pure finito per ritrovare una loro magia, per tornare indietro nel tempo, alle leggende che ne raccontavano la nascita. Ma in quelli che guardiamo con i nostri occhi non ci saranno mai fate che sussurrano sulle scintillanti acque del Carlingford Lough, fra le dolci terre d’Irlanda, per raccontare delle impronte lasciate dai giganti, e non esiste una dea chiamata Garavogue che nella contea di Meath passa in volo forgiando le rocce e il terreno. I bambini possono vedere favole così. Massimo Gramellini, vicedirettore del Corriere della Sera, scrittore di successo, presentatore tv, ha scritto un bellissimo libro, “C’era una volta adesso”, Longanesi Editore, raccontando con commovente dolcezza il lockdown vissuto con gli occhi di un bambino, Mattia, costretto, fra le mura di casa, a dividere la sua esistenza con l’uomo che detestava di più, il padre, che l’aveva lasciato quand’era ancora più piccolo. All’inizio è persino contento di veder scomparire alcune cose che gli rovinavano la vita, la sveglia alle 7, la fatica che faceva a seguir le lezioni a scuola, i brutti voti, i compagni che lo prendevano in giro. Ma poi ha dovuto fare in fretta i conti con la prima conseguenza della clausura, quella “espressione straniera dal suono inesorabile: lockdown. E la conseguenza era che qualcuno, senza chiedermi nemmeno il parere, mi aveva proibito di parlare con la nonna, salendo semplicemente una rampa di scale”. Ma i bambini hanno un loro mondo per sopravvivere, quello delle fate che sussurrano alle acque e dei supereroi che mettono a posto le cose: “E se il mondo qui fuori non ci voleva più bene, ce ne saremmo inventati uno di dentro, soltanto nostro. Non avevamo bisogno di nessuno, noi”.
E gli adulti invece? Noi come abbiamo fatto a sopravvivere al lockdown?
“I bambini hanno una capacità di adattamento che noi non conosciamo, possono rielaborare la realtà attraverso la loro fantasia. A noi questo non è concesso. Per la nostra generazione, gli uomini vestiti con quelle tute quasi da fantascienza erano gli astronauti che andavano sulla luna. Per loro adesso sono i medici, gli infermieri, tutti quelli che lavorano negli ospedali, vicino ai malati, dentro a una realtà che è molto più a contatto della nostra esistenza. Abbiamo paura che la pandemia renda i bambini troppo presto adulti. Sarebbe meglio se riuscisse a rendere noi un po’ bambini: c’è stata più ansia fra gli adulti perché la fantasia infantile è un formale antidoto contro la paura”.
Il Covid è una malattia che può uccidere. Vedevamo la gente morire, le sfilate di bare alla televisione, come racconti nel tuo libro. E questo ci ha spaventato. Ma poi?
“Il lavoro. Pensiamo che c’è tanta gente che questo lockdown l’ha vissuto in condizioni drammatiche. Chi aveva il posto fisso poteva affrontare la quarantena esclusivamente pensando alla salute. Andando sul lavoro la rischiava. Ma chi non aveva il posto fisso, invece, ha sofferto più per il lavoro che per la salute. Io ho un amico che a febbraio aveva investito tutto sulla ristrutturazione di un ristorante. Aveva contratto dei debiti con la certezza di ripagarli nei primi mesi di lavoro. Il lockdown ha mandato a pezzi il suo piano e ora naviga al buio come tantissimi. Nel romanzo mi sono ispirato a lui per il padre di Mattia. E poi ci sono gli operatori sanitari che hanno perso la vita, e non solo loro. Penso a quelli che l’hanno rischiata tutti i giorni per fare il loro dovere”.
Ad esempio?
“Le forze dell’ordine. E i postini”.
Le Poste, in fondo, sono rimaste a presidiare la vita normale in un periodo che non aveva più niente di normale. Ma tutto questo che senso ha avuto per te?
“Hanno avuto un ruolo fondamentale. Quando abbiamo tirato su i ponti levatoi per isolarci dal mondo sono stati gli unici che hanno potuto raggiungerci. Non ci hanno aiutato solo gli infermieri, i medici, i volontari della Croce Rossa, non c’erano solo le sirene delle ambulanze che squarciavano i silenzi. Anche loro si sono esposti al contagio. Noi abbiamo vissuto come nel Medioevo, e loro sono stati, e lo sono ancora, i cavalieri che vengono ad approvvigionarci, cavalieri medioevali con lo scudo e l’armatura. A casa mia, quasi tutti i giorni c’è un pacco che arriva, sembra sempre Babbo Natale. Però in generale c’è qualcosa di più in tutto questo”.
Cioè?
“In queste immagini c’è un nuovo modo di vivere”.
Perché, secondo te che cosa sta cambiando con la pandemia, o che cosa è già cambiato?
“Pensiamo allo smart working. Qualcosa resterà anche dopo. Non sappiamo in che misura, ma resterà. Lo smart working danneggia le città come Milano, rischia di stravolgere la fisionomia dei centri storici e finanziari. Ho un amico che vive e lavora a Londra. E mi ha detto che è trasformata, che fa impressione vedere la City vuota: tutto quello che era stato costruito attorno al lavoro e ai suoi uffici è morto, le palestre, i bar, i ristoranti, gli alberghi. La gente si aggira nel deserto. Se resta lo smart working cambieranno i contratti. E gli uffici. Quelli che potevano tenere anche duecento persone adesso non serviranno più. Basteranno dei piccoli locali di rappresentanza”.
Ma il lavoro che abbiamo conosciuto noi è una comunità, come quella della Chiesa, è una religione che guarda il mondo assieme. Il lavoro a casa era un fenomeno del protocapitalismo. Secondo te non tornerà tutto come prima?
“Quando si esce da un tunnel non lo si fa mai dalla parte in cui si è entrati: quello che si apre davanti agli occhi non è il panorama che c’era prima. Certe abitudini di questi mesi si sono ormai consolidate, e quelle resteranno. Come le riunioni su skype, i collegamenti video. Prima erano una cosa eccezionale. Ora sono la normalità”.
E nel privato? Che cosa hanno cambiato questi mesi di clausura?
“Pensa a quante coppie stavano assieme per dovere. Immagino che stare chiusi in casa possa essere stata un’esperienza esplosiva. Ma in altri casi sono saltati i rapporti con gli amanti, perché ci si è resi conto che si poteva fare a meno di loro. All’inizio del mio romanzo scrivo: ‘Tutto il mondo affrontò la stessa prova. Qualcuno ne approfittò per cambiare. Qualcun’altro non ci riuscì’. La clausura non ha migliorato tutti, né peggiorato tutti. Ci ha reso quello che siamo riusciti a fare. Qualcuno ce l’ha fatta, altri no. È la differenza tra l’eroe mitico e l’eroe tragico, tra Humphrey Bogart di Casablanca e Scarface. L’eroe mitico cambia durante la prova tremenda, perché il trauma (nel caso di Bogart la guerra) lo mette di fronte a una scelta, lui rinuncia all’amore per un ideale collettivo e ne esce più forte; l’eroe tragico muore, proprio perché resta sempre lo stesso. Prove come la pandemia ti costringono a togliere la polvere dal tappeto”.
E di fronte a queste prove non siamo tutti uguali?
“Assolutamente no. Sì, Madonna diceva che siamo tutti sulla stessa barca, ma lo diceva dalla sua vasca da bagno con i pomelli d’oro. Vista da un seminterrato in cui si vive in otto senza neanche una connessione internet, la pandemia è tutta un’altra cosa”.
Il futuro?
“Nel mio romanzo il protagonista racconta ai nipoti quello che successe nel 2020. Scrive dal futuro e questo è molto rassicurante perché significa che ci sarà un futuro. Ne abbiano passate di peggiori. La peste del Trecento dimezzò la popolazione di Firenze, ma la generazione successiva fece il Rinascimento. Che cosa succederà? Io spero che la pioggia di soldi in arrivo dall’Europa non serva solo a distribuire le mance, ma metta le basi per far ripartire l’economia, con investimenti per l’ambiente, la tecnologia, la salute e soprattutto l’istruzione, la grande dimenticata. Abbiamo accettato come normale che i nostri figli non andassero a scuola praticamente per un anno intero. È una cosa tremenda togliere quel periodo di vita ai ragazzi. È una tragedia. Parlano tanto di discoteche e di skilift, perché nelle discoteche e negli impianti di sci girano soldi. La scuola invece sembra non interessare nessuno. Adesso dobbiamo investire finalmente lì. E nella sanità pubblica. C’è stato un periodo in cui ci vantavamo dei tagli da 100 milioni sulla sanità. Adesso ne abbiamo visto i risultati”.
Qualcosa cambierà in meglio, dunque?
“Io credo che questa pandemia non è la fine del mondo. Ma è la fine di un mondo. Forse”.