La questione educativa popolare in Italia si trascina da sempre. La sua mancata soluzione causa danni maggiori di quanti ne provochi la questione meridionale non risolta. Nessuno, finora, ha posto tale questione in termini pratici più appropriati di don Bosco. Il primo punto per una soluzione è il riuscire a intendersi tra giovani e adulti, educatori e discepoli, scuola e società. In ognuno di questi ambiti san Giovanni Bosco, alias don Bosco, non ha sbagliato un colpo. Dopo di lui le scienze psicologiche hanno migliorato la comprensione dei problemi giovanili. Ma già prima della rivoluzione freudiana, in piena espansione industriale, mentre l’Italia costruiva la sua unità, don Bosco lavorava a fare gli italiani. Gli è riuscito dipanare la matassa complicata del dialogo tra giovani e adulti sostituendo alla pedagogia del castigo la pedagogia del cuore. L’educazione – ripeteva – è una questione di cuore. In epoca di prevalente cultura autoritaria in famiglia, nella società e nella Chiesa, don Bosco ha scritto un “trattatello” di mille parole con una nuova proposta educativa popolare, conosciuta come “Sistema preventivo nell’educazione della gioventù”. Lo scrisse “nelle linee generali, ma lo applicò poi interamente sotto gli occhi dei seguaci e collaboratori”. L’anima di questo trattatello la si ritrova, pochi anni dopo, in una delle più celebri lettere di don Bosco sulla questione educativa. Scritta nel 1884, quattro anni prima di morire, la Lettera da Roma rivela la leva di Archimede applicata da don Bosco all’educazione.
Familiarità in ricreazione
Il punto di appoggio è il cortile, immagine di prossimità ai giovani valida ancora oggi. Il cortile indica il luogo e il tempo dello svago giovanile. Il cortile è il laboratorio pedagogico pratico di don Bosco. Vi si gioca la premessa di una proficua partita tra educatori e giovani. Non basta consumarsi di fatica per i giovani – si legge nella famosa Lettera – se gli educatori non sono l’anima della ricreazione. Nel sogno raccontato da don Bosco si discute il passaggio dall’originaria allegria dell’Oratorio al grigiore degli anni successivi. E di come ricuperare l’allegria. “Ci manca il meglio: che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati…Che essendo amati in quelle cose che ad essi piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a vedere l’amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparino a far con slancio e amore”. Gli educatori “amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace ai Superiori. E a questo modo sarà facile la loro fatica. La causa del presente cambiamento nell’Oratorio è che un numero di giovani non ha confidenza nei Superiori” che ora “sono considerati come Superiori e non più come padri, fratelli e amici; quindi sono temuti e poco amati”. Che fare dunque? “Familiarità con i giovani specialmente in ricreazione”.
Un tesoro di 4.600 scritti
“Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama…Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come un fratello. Se uno è visto solo predicatore dal pulpito si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama…Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani”. A diffondere l’esperienza educativa di don Bosco molto hanno contribuito le sue 4.600 lettere finora rinvenute che don Francesco Motto dell’Istituto Storico dei Salesiani ha pubblicato in nove volumi. S’ipotizza che il Santo ne abbia scritto altrettante andate perdute. Nelle lettere di don Bosco è declinato il suo pensiero dominante: i giovani. Per lui un bene prezioso di cui non servirsi; da servire, invece, per farne buoni cristiani e onesti cittadini. Ragione, religione, amorevolezza sono i tre pilastri del Sistema preventivo. L’amorevolezza, per la riuscita dei primi due resta determinante.