Un lavoro rigoroso quello di Paolo Mereghetti, critico cinematografico del “Corriere della Sera” e autore da venticinque anni del monumentale e omonimo dizionario dei film fatto quest’anno di 33.000 schede, uno che notoriamente non fa sconti a nessuno. Neanche a mostri sacri come Bernardo Bertolucci, l’unico italiano ad aver vinto un Premio Oscar per la regia con “L’ultimo imperatore” nel 1987. “Qualche volta i suoi film non mi convincevano fino in fondo”, commenta con onestà intellettuale, e una volta per uno in particolare, “Prima della rivoluzione” (1964), la pellicola che in Italia ha anticipato la contestazione del ‘68, si scambiarono delle lettere. “Rivedendo il film mi ero accorto che la prima volta non avevo capito bene delle cose, per dirglielo gli scrissi una lettera a mano, e Bernardo mi rispose gentilissimo”.
Le relazioni pericolose
Anche con Liliana Cavani le corrispondenze furono fittissime, “dalle lettere nacque una bella amicizia, pure con i fratelli Taviani ci furono degli scambi epistolari” ricorda, mentre con Federico Fellini solo lunghe conversazioni telefoniche, e successivamente con i registi quasi soprattutto mail, “ma anche adesso mi piace scrivere delle lettere” racconta, “mi piace proprio scrivere, usare la carta, le buste, ho una mia piccola collezione personale di corrispondenza”. Se le scambia ancora con alcuni amici, “scrivo su un residuo di discussione, cerco di spiegarmi meglio con la scrittura, perché le lettere vanno più in profondità, sono più pensate, meno immediate delle altre comunicazioni a volte impulsive”. Secondo lui è anche una relazione più pericolosa, “il rischio della lettera è che chiede intimità, confessione, altrimenti ci si scambia solo cose superficiali” mi spiega. Ma le corrispondenze entrano anche nelle trame dei film, e Mereghetti lo sa bene, allora cita il primo che gli viene in mente “84 Charing Cross Raoad” di Jones con Anne Brancoft e Anthony Hopkins, “dove il proprietario di una libreria antiquaria si scambia per vent’anni queste lettere con una signora americana di New York, e le lettere diventano anche molto più complicate”, dice, oppure mi cita un altro film di Ernst Lubitsch del 1940, un classico, “Scrivimi fermo posta”, dove “le lettere servono per mascherare”, oppure “Postacelere” gli ricordo, il film norvegese girato da Pal Sletaune dove il postino Roy entra nelle vite dei suoi clienti, e in particolare di Line, fino ad essere coinvolto in un intrigo. Certo che lo ricorda, mi cita le ambientazioni e certe scene girate alla stazione centrale di Oslo, dove il protagonista butta la corrispondenza nelle gallerie, tra i binari. “Nelle lettere si ha il coraggio di dire delle cose che faccia a faccia nessuno avrebbe il coraggio di dire”.
Dai lettori
Durante il lockdown ha scritto a una sua amica romana, “ci scambiamo delle impressioni nell’impossibilità di vederci, frequentarci”. Ma ne continua a ricevere molte anche dai lettori, “nel dizionario c’è un indirizzo di posta, mi mandano suggerimenti, piccole correzioni da fare, film che non ho preso in considerazione, molte di giovanissimi. Ho un rapporto positivo con loro, non mi offendo affatto, anzi è un aiuto, su 7.000 pagine mica si può controllare tutto!” dice con modestia. Ma uno di loro, un viscerale moralista, confida, gliene spedisce periodicamente al “Corriere della Sera”, non gradisce commenti positivi su storie audaci fatte di tradimenti o amori omosessuali, “non si firma, scrive lunghe lettere battute a macchina e mi augura persino le fiamme dell’inferno” finisce col dire divertito, ridendo.