“I giovani sono una risorsa secondo Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore presso il dipartimento di Scienze Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano. A lui abbiamo chiesto cosa ha significato per genitori e figli ciò che si è vissuto e si sta vivendo durante la pandemia, qual è stato il ruolo delle aziende nella vita dei dipendenti e cosa porteremo con noi di questo difficile periodo, sia in positivo sia in negativo.
Dottor Pellai, qual è stato il ruolo dei genitori in questa pandemia?
“Da una parte quello di dare continuità, motivazione e obiettivi alla vita dei figli, e questo per tutte le età. La loro vita, che era piena di cose e impegni e con una grande struttura, improvvisamente è stata privata di tutto. E in questa privazione, i figli sono stati reclusi con i loro genitori, e sono diventati un tutt’uno. Da una parte, in modo molto operativo, hanno rivestito tanti ruoli e funzioni diverse: insegnanti, animatori del tempo libero, allenatori sportivi. Ma anche confidenti, psicologi, compagni di gioco. Allenatori alla vita, come ogni genitore dovrebbe essere in un momento in cui la vita aveva completamente cambiato copione, dovendo reinventare senza cambiare ruolo di sostegno alla crescita ed educatore”.
Quali sono state le sfide più difficili?
“I compiti più sfidanti sono stati la dimensione multitasking, essere e fare tante cose insieme 24 ore su 24. La seconda sfida durissima è stata dover entrare in contatto con questa sofferenza e questo dolore da privazione, essendo di fatto impotenti. Un genitore, quando vede che qualcosa non va, la sistema: in questo caso non si poteva, si poteva solo stare vicini”.
Il supporto delle grandi aziende è stato d’aiuto?
“Da una parte, con la conversione nel percorso dello smart working, le aziende hanno dato per la prima volta la percezione che ci può essere più flessibilità. È stato introdotto nelle aziende un modo completamente diverso di pensare al coinvolgimento del dipendente e come vengono messe in gioco le competenze. Abbiamo compreso che in futuro sarà più possibile conciliare il modello di collaborazione al progetto professionale, che funziona bene anche rispetto alle esigenze di vita. Molte aziende lo hanno costruito tailor made con i loro dipendenti. Altra attenzione forte, che ha visto noi anche coinvolti: in molti progetti di welfare delle aziende c’è stata grande attenzione a sostenere il benessere emotivo dei propri dipendenti, approfondendo i fattori di protezione, le variabili associate al benessere psicologico, che andavano mantenute sostenute e curate”.
Come abbiamo gestito l’impatto con il digitale?
“Altra grande cosa avvenuta è la rivoluzione digitale, che ha accelerato la comprensione di procedure, modalità e funzioni a 360 gradi in tutti gli ambienti. Le famiglie hanno acquisito competenze digitali che ignoravano completamente. Siamo tutti diventati interconnessi. In questo, dal mio osservatorio, i genitori sono diventati più consapevoli di quanto l’interconnessione sia diventata iperconnessione e di quanto per alcuni dei loro figli c’era già, e non ne avevano avuto la percezione. Nel vedere un figlio che sta sempre attaccato allo schermo, ecco che un genitore comincia a dire: “abbiamo un problema”. Poi, nell’essere così presenti fisicamente ai figli, molti genitori hanno cominciato a chiedersi cosa stesse succedendo nelle vite online dei figli e hanno avuto poi la consapevolezza delle aree di rischio, dalla pornografia alla dipendenza da social. Tutte cose non derivate dal Covid che prima, in una vita frenetica e strutturata, non erano mai stata attenzionate”.
E ora che cosa è cambiato?
“Nei primi mesi c’è stato un forte entusiasmo sull’interconnessione, che dava una modalità di sopravvivenza. Però, dopo più di un anno di digitalizzazione, genitori e figli stanno toccando con mano che la vita virtuale non è la vita reale. E digitalizzarla in età evolutiva comporta grossi rischi con effetti indesiderati, che in parte ci restituiscono la consapevolezza del perché serve avere un progetto educativo. Dopo l’abbuffata di tecnologia, abbiamo visto vantaggi e svantaggi; e come questa apatia e demotivazione ci dica che quello tecnologico non è un habitat in cui promuovere crescita, ma solo uno strumento che la sostiene. Ciò che serve davvero è la vita reale”.
Gli adolescenti sono stati spesso descritti come poco responsabili e poco attenti alla prevenzione del contagio.
“È stata una narrazione molto scorretta nei loro confronti, lo dico da padre. Quando parliamo di adolescenti come untori dobbiamo sapere che l’adolescenza finisce a 18 anni. Se guardiamo, questi untori adolescenti sono stati sempre narrati in relazione alla movida, alle discoteche. Ma quelli non sono adolescenti, ma spesso ventenni o trentenni. Gli adolescenti invece hanno fatto un lavoro incredibile, sono spariti e li abbiamo rivisti solo a gennaio quando volevano tornare a scuola. Sono stati narrati tantissimo per le risse, nessuno li ha raccontati per quello che è stato fatto durante la scorsa estate; moltissimi sono entrati nei centri estivi ad animare i preadolescenti, dando esempio di cosa vuol dire puntare sugli adolescenti rendendoli protagonisti attivi e responsabili, invece che tenerli invisibili e nascosti”.
Quali sono state le principali rinunce e privazioni nelle diverse fasce d’età dei nostri figli?
“Per la fascia 0-6 anni la rinuncia più grossa è stata quella dei nidi e della scuola d’infanzia, che è la palestra della prima socializzazione. L’assenza li ha fatti regredire tantissimo, ha significato riportarli dentro al nido bloccando la dimensione di esplorazione nelle relazioni. Per i 7-10 anni la privazione più grande è legata al gioco: è stato bloccato – oltre alla scuola – l’apprendimento attraverso il gioco con l’altro, che è una dimensione di crescita. Per i giovani dagli 11 ai 14 anni c’è stata la rinuncia al corpo: è quello un tempo in cui il corpo si sviluppa, cresce, diventa contenitore e produttore energetico. I ragazzi hanno bisogno di scaricare energia con l’attività sportiva, nelle gare, in contesti animativi e sportivi”.
E gli adolescenti?
Per gli adolescenti fino ai 18 anni la rinuncia più grande è l’idea di essere pensati capaci, di dare loro un potere di azione che gli permettesse di diventare protagonisti. Il danno è stato averli sempre immaginati come irresponsabili, non capaci di mettersi in gioco in un contesto in cui invece, se ben guidati, potevano crescere molto”.