Quando la chiamo al cellulare, Dori Ghezzi risponde subito loquace, colloquiale, dandomi del tu, “scrivo pochissimo, preferisco chiacchierare” ammette, “sono molto sintetica, risolvo in poche parole”, non ama le lungaggini, gli incisi, “tutte le inutili digressioni” sostiene, “e non sono sui social”. Anche con Fabrizio De André era così, “non mi ha mai scritto delle lettere, diceva che le cose non vanno troppo raccontate, le devi sentire”. Lei, la “donna in fiamme” di Hotel Supramonte, l’unica canzone che il grande cantautore genovese per sua ammissione le ha dedicato, combattiva per tutti i 117 giorni della prigionia, dopo il sequestro avvenuto nel 1979 nel vecchio stazzo dell’Agnata in Gallura, quella che i rapitori chiamavano con rispetto “la signora”. Un altro verso di quella canzone struggente parlava di “una lettera vera di notte e falsa di giorno”. La ricorda adesso, col suo “ordine discreto dentro il cuore”, un tratto profondo del suo carattere, “eravamo costretti a scrivere sotto dettatura delle lettere che non condividevamo, erano false, contro la nostra volontà, lettere sgradevoli”, così le definisce, “con la nostra scrittura per far capire che eravamo noi, che eravamo vivi” racconta di quei momenti drammatici.
Una storia da custodire
Un’altra lettera in pubblico Faber l’ha scritta per la sua città, si intitola “Madre generosa”, lei l’ha letta in occasione delle commemorazioni delle 43 vittime del ponte Morandi, “è molto bella toccante, lo ritrovavo molto in quelle parole, perché lui è stato sempre molto sincero, in buona fede, non ha mai fatto una cosa scontata, avendo la certezza di essere capito dal suo pubblico”. “Era la solita madre generosa nella spettacolarità dei paesaggi obliqui e cangianti, mamma affettuosa nell’elargizione di un clima da Shangri-La, genitrice estremamente severa nei confronti di chi si fosse lasciato cogliere addormentato al ritmo del suo respiro mediterraneo, sempre tiepido. Quella era Genova da cui mi dividevo per incidente d’amore e finimmo per disparentarci” scriveva il più grande talento della canzone d’autore italiana nel 1979. “Sì, diceva che ti ritrovi a dover scappare da Genova per poi rimpiangerla, ma lui non l’ha mai abbandonata, avevamo trovato una piccola casa al porto prima che Fabrizio si ammalasse, voleva tornarci, una casa con un posto barca, naturalmente”, racconta Dori Ghezzi. Adesso tutte le carte, i biglietti, sono in un Fondo custodito all’Università di Siena, “ci sono i libri che ha letto, sottolineandoli, le lettere di lavoro, qualche biglietto di Stefano Benni, anche una breve corrispondenza con Raffaele Cutolo, lui aveva scritto di riconoscersi in Don Raffaé”, il camorrista gli aveva inviato anche un suo libro di poesie, “alla lettera Cutolo aveva allegato un libro di sue poesie. Almeno un paio davvero pregevoli. Gli ho risposto per ringraziarlo. Recentemente mi ha scritto ancora. Però stavolta non gli ho risposto. Un carteggio con Cutolo non mi sembra il massimo”, aveva raccontato De Andrè di quel breve scambio di messaggi. E poi arrivò la lettera di uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, l’ermetico Mario Luzi, il quale gli scriveva: “Caro De Andrè sono invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento e me ne scuso… Lei è davvero uno chansonnier, vale a dire un artista della chanson. La sua poesia, poiché la sua poesia c’è, si manifesta nei modi del canto e non in altro; la sua musica, poiché la sua musica c’è, si accende e si espande nei ritmi della sua canzone e non altrimenti”. Adesso ne continuano ad arrivare anche ad oltre vent’anni dalla morte, “ci sono giovani che scrivono lettere di quattro, cinque pagine, si identificano” racconta ancora Dori Ghezzi, persino stupita, “dicono cosa ha rappresentato Fabrizio per loro, quali sono le cose che sono entrate nelle loro vite, alcuni scrivono persino che lo hanno sognato”.