Emanuele Trevi dopo aver vinto il Premio Strega 2021 con “Due vite” (Neri Pozza) è andato in tour. Lo chiamo e risponde da un treno in corsa, la sua voce si perde inghiottita dalle frequenze mente stiamo parlando, poi quando mi rifaccio vivo è occupato, capisco che è indaffarato, corre dalle Dolomiti alla Sicilia, mi dice che sta andando in Salento. Festival letterari, incontri con i tanti pubblici che vogliono sentire la viva voce dello scrittore che ha vinto il più prestigioso premio letterario italiano. Gli scrivo inviandogli delle domande.
Le lettere di “Due vite”
Due giorni dopo mi chiama dicendomi scherzoso: “via mail rispondo a quelli che non mi stanno antipatici. Cominciamo”. Nel suo libro racconta la vita di due amici scrittori prematuramente scomparsi, Rocco Carbone e Pia Pera, scrittrice e traduttrice dal russo, con la quale si scambia molte lettere. Lei viaggia parecchio, nel 1995 gli invia una corrispondenza da Londra, “descrive una sera passata in uno strano club di Londra in compagnia di un amico con una grande gobba”, oppure spedisce le sue lettere dall’America. “Mi colpiva proprio l’incertezza del viaggio che facevano per arrivare, la capacità delle vecchie lettere di arrivare da posti incredibili, non si sapeva mai se sarebbero davvero arrivate a destinazione, era un prodigio quotidiano” dice, “arrivavano nei luoghi di vacanza, nei posti più incredibili” racconta meravigliato.
“La carta tridimensionale”
Per lui come per molti altri scrittori scrivere lettere è stata una palestra prima di perdersi nel mare magnum della letteratura, “le prime cose che ho scritto erano proprio delle lettere agli amici, invece negli amori non volevo mettere nero su bianco cose che non potevo promettere, lo consideravo pericoloso”, ammette, schivava quelle insidie, le parole che restano, “le prime lettere le scrissi a un caro amico in Piemonte, un altro a Napoli, a volte anche gli amori estivi si trasformavano in lettere”, prima di estinguersi definitivamente. Dice che le mail sono molto simili, hanno trasferito l’anima delle corrispondenze nella rete, “manca però l’unicità dell’oggetto, la consistenza fisica, mancano i francobolli” lamenta Emanuele Trevi, “che non si vendono più neanche nelle tabaccherie, pensavamo che la carta fosse bidimensionale in un mondo non digitale, invece è tridimensionale”.
La corrispondenza con altri scrittori
Ogni tanto la voce si perde. Immagino Emanuele Trevi in una stanza di albergo, una delle tante stanze delle altrettante città dove molti scrittori vivono nomadi per portare il proprio libro in pubblico. Gli ricordo che Kafka pensava che le sue lettere fossero “bevute dai fantasmi lungo il tragitto”. Dice che ha riletto quelle scritte alla fidanzata Milena, ma non lo hanno entusiasmato, invece ha amato molto quelle della poetessa Marina Cvetaeva, “Il paese dell’anima” e “Deserti luoghi”, quelli che chiama “i due volumi Adelphi”, gli piacciono perché l’autrice “è una grande anima, ha il talento epistolare” dice con ammirazione, sono lettere verosimili, mentre in genere nei romanzi epistolari sono finte, a parte “Le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos, un libro fantastico”. Ne ha scambiate molte anche con altri scrittori, ma di tutte ricorda quelle di Giovanni Raboni, “gli avevo inviato delle poesie giovanili, ero uno sconosciuto, mi rispose gentilissimo dandomi consigli sullo scrivere in versi, quelle lettere mi hanno commosso”. Ma in assoluto non è stato un grande scrittore di missive, “vivendo a Roma la gente si incontra, abbiamo meno epistolari di voi” dice prima di lasciarci, intendendo quelli che come me vivono nelle tante provincie italiane una volta irraggiungibili, prima dell’era di internet e quella che hanno chiamato “la fine della distanza”.