“Un tentativo di colmare l’abisso” è un librone (Adelphi) che raccoglie le Lettere che tra il 1968 e il 1996 si sono scambiati due scomodi, bruschi e talvolta urticanti intellettuali italiani, alla ricerca di violare e capire il mistero che avvolge l’universo cosmico e l’identità profonda dell’uomo. I due, in misura diversa, sono autori da combattimento, polemisti capaci di graffiare e contemplativi della conoscenza. Affascinati dall’estetica e dal segreto della parola indagata con le chiavi della filologia. Meno inclini a leggere i segreti dell’essere che confluiscono nell’unica realtà che può illuminare il chiaroscuro dell’umana vicenda che fin dai primordi si cerca di spiegare senza riuscirvi nella sua totalità.
Colmare l’abisso della conoscenza
Dante identifica questa luce nelle tenebre con “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Per fare questa traversata nel regno misterioso dell’esistenza senza cedere più di tanto ai sentimenti, occorrevano due singolari amici e intellettuali, polemisti assetati di sapere, pieni di cultura e sempre in veste di scolari. Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, giornalisti di vaglia mai paghi del puro suono delle parole scritte, attratti dal mistero intimo della realtà scavata da un punto di vista laico o religioso. “Ostinato credente” Quinzio; “eretico che non abiura” Ceronetti, discusso battitore libero. Entrambi determinati e senza boria, consapevoli che tentare di colmare l’abisso della conoscenza e del dolore umano non riuscirà mai completamente agli umani. Un’amicizia durata e cresciuta negli anni, consapevole che nessuno basta a sé nella ricerca del mistero del mondo e nello svelamento del senso ultimo della vita. Una corrispondenza di 346 lettere spalmate nell’arco di 28 anni, tanti fino alla morte di Quinzio avvenuta nel 1996. Il carteggio richiama alla mente un’altra tempestosa corrispondenza durata 56 anni tra Prezzolini e Papini, due altri autori di fuoco della storia letteraria del Novecento italiano.
Le loro parole
Lettere dense di interrogativi, richieste all’amico di chiarimenti nel ginepraio del sapere e dell’ispirazione. Testimonianza che la vita vera, quella masticata per le sue gioie e le sue amarezze viene prima della filosofia, della filologia, salvo che la filosofia non sia vissuta come esperienza di vita in ricerca. Non basta essere considerati autori per sciogliere enigmi dell’anima. Permane la coscienza del limite. “Questo ti dice il mio timore – scrive Quinzio a Ceronetti tre anni dopo l’inizio della corrispondenza – di non riuscire a spiegarmi con te. Di non riuscire a dirti che la parola ha un potere sublimante, catartico, in qualche misura salvifico, solo perché e affinché è scritta con la potenza, l’urgenza e la spontaneità che possono nascere soltanto dalla certezza che la vita deve diventare “pace della giustizia e gloria della tenerezza”. Ad aprire il raffinato epistolario che una volta iniziato a leggere intriga sempre di più, è Ceronetti: “Caro Quinzio… con moltissime analisi concordo…la differenza sta nel non sentirmi cristiano…il cristianesimo non è Gesù—anche tu hai operato il tuo moderno scorticamento di Gesù”. Strano ma vero: è intorno alla Bibbia, alle sue traduzioni, al modo di interpretarla, di significarla nella vita che ruota tanta parte del carteggio. “Caro Ceronetti -risponde Quinzio -…devo nutrirmi di una speranza, non potendo accontentarmi di un concetto puro…lascio dunque i consolanti luoghi di consenso e tento quelli di dissenso…Il mio Gesù lo sento diverso da quello ricavato mediante altri moderni scorticamenti”. Dalla seconda Lettera si passa dal cognome al nome: “Caro Guido…Caro Sergio”. E poi, si aggiungono aggettivi: “Carissimo… un abbraccio”. La grande ricerca si stempera nel quotidiano; sente il bisogno di vicinanza, di amicizia provata, profonda, resistente per attraversare gli angoli bui della vita, per respirare coraggio, rischiarare anima e intelletto nel comprendere i perché e i per come che inquietano e provocano la mente e il cuore di ogni uomo. Mai banale il pensiero che tenta di non dissociarsi dalla realtà stringente del vivere, della salute, degli affetti, della malattia, dell’invecchiamento. Ma la riflessione non cede mai all’ovvio: “Forse – scrive nelle ultime lettere Quinzio – per me è più difficile che per te sopportare, perché non mi sono mai potuto arrendere all’idea che la vita è male, ho continuato e continuo disperatamente a credere, sulla parola di Dio, che è valde bona”. [molto buona– ndr].