E così Bud Spencer diventa un francobollo. Prima era stato un campione olimpico, poi un caratterista anonimo del cinema, poi il protagonista occasionale di un film di culto e di incassi, poi un attore e infine addirittura “un genere” cinematografico: quello nato intorno a lui. Infine, divenne un libro, e in questa occasione ebbi la fortuna di conoscerlo. Quando Bud Spencer decise di compilare la sua avvincente biografia lo intervistai più volte, sia in privato che in pubblico. Scoprii l’uomo dietro la maschera. Era andata così: nel 2010 mi aveva chiamato il suo editore, Francesco Aliberti, che aveva avuto la brillante idea di mettere Bud nelle mani di due ottime penne (Lorenzo De Luca e David De Filippi), consentendo a questa squadra di partorire un volume che era ricco come una saga mitologica e avvincente come un romanzo di avventure. Scoprii, in quei giorni passati insieme, che Carlo Pedersoli era un professionista meticoloso e attento, anche un imprenditore, e che il suo alter ego cinematografico era solo una quintessenza della parte più giocosa di lui. Adesso Poste ha avuto la bella idea di celebrare entrambi: l’attore e l’uomo. E persino l’imprenditore che – fondando la compagnia aerea Mistral – ha creato l’antecedente dell’attuale flotta aerea cargo dell’azienda.
Un frammento di storia
Era inevitabile: un uomo che è stato un campione di nuoto, un caratterista, un genere eponimo e un libro doveva necessariamente diventare qualcosa di più, godere del privilegio di trasformarsi in un frammento fustellato di storia italiana, dopo essere stato l’idolo e l’icona di generazioni di grandi e bambini. Aveva scelto di chiamarsi “Bud” per contrario, perché la sua maschera era quella di un burbero, di un finto cattivo che in realtà è buono. E anche per un omaggio ad una birra dal nome orecchiabile, per sedurre i mercati anglosassoni. E si era ribattezzato “Spencer” in omaggio a Spencer Tracy, il suo attore preferito. Adesso Bud Spencer diventa un francobollo ordinario, nella sontuosa serie tematica delle “Eccellenze italiane dello spettacolo”. E io sono sicuro che Bud-Carlo sarebbe felicissimo di sapere che è stato “tirato” in trecentomila esemplari, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente. Noi siamo erroneamente portati a credere che Bud Spencer sia stato un fenomeno tutto italiano, ma invece nel 1999, dopo una accurata indagine, la rivista americana “Time” lo aveva collocato al primo posto tra gli attori italiani più famosi al mondo. Nei paesi del nord Europa – su tutti la Germania – i suoi personaggi avevano quasi più successo che da noi.
Il sodalizio con Terence Hill
Ricordo ancora, di quei giorni passati insieme, nel 2010, il mio stupore per la sua capacità di analizzare e rivelare il congegno comico – apparentemente semplice, ma in realtà sofisticato – che era il segreto della sua leggendaria coppia drammaturgica con Terence Hill: “Il nostro meccanismo – spiegava Bud divertito – è elementare ma irresistibile. E di solito tutto inizia così: Terence parla, e io grugnisco infastidito. Lui si mostra agile, mentre io sono bulldozer. Lui si caccia nei guai, perché è la sua natura di bello e fatuo, e ovviamente nei guai ci trascina anche me, che non lo reggo e non vorrei seguirlo mai”. A questo punto Bud scoppiava a ridere: “Mi ero calato così bene nella parte, che una volta, quando nel copione qualcuno veniva a raccontarmi che era stato coinvolto in una sparatoria mi era venuta una battuta fuori testo, in cui chiedevo speranzoso: “Lo hanno ammazzato, vero?”. Era venuta così bene che replicammo anche quella, in decine di copioni”. Carlo Pedersoli, quando doveva trarre la sintesi di venti film e miliardi di incassi al botteghino lo faceva così: “Il grasso e il magro, il furbo e il cretino. La mente e il braccio, l’amore che si impasta con l’odio. La dicotomia che funziona dalla notte dei tempi cinematografici – aggiungeva – era rinnovata e rinsaldata da quella speciale alchimia che si creava tra di noi”.
Il successo di Trinità
Ma ancora più bella era la storia di quell’incredibile successo che era stata la serie di Trinità, il film che aveva lanciato Bud Spencer e Terence Hill, aprendo un filone di sequel (e persino di cloni). “La storia del cinema – spiegava Bud Spencer – è piena di successi che all’inizio nessuno voleva produrre e nessuno voleva fare. “Lo chiamavano Trinità”, rientra a pieno titolo in questa particolare e fortunata categoria”. Già. Il copione era già stato scartato da diversi registi e diversi produttori, tutti perplessi dall’idea di girare -nel tempo dei grandi film epici di Sergio Leone – un western comico. Sembrava una nota stonata, una sporcatura. Tutti si convincevano che il pubblico lo avrebbe rigettato. E così, passando di mano in mano, di rifiuto in rifiuto, il destino volle che la sceneggiatura capitasse sul tavolo di un produttore avventuroso ed estroso, Italo Zingarelli, e la regia nelle mani di un talentoso e colto ex direttore della fotografia che si chiamava Enzo Barboni, ma che divenne famoso – nei titoli di quel film – con lo pseudonimo americanizzato di E. B. Clucher. Barboni (che morì prematuramente all’alba degli anni Ottanta) fu il vero ingrediente decisivo per esaltare il talento di Bud. A lui si devono – e Bud non si stancava mai di ricordarlo – i tanti sottostesti e i riferimenti che resero grande quel cinema popolare: il ruolo della comicità muta, gli omaggi non detti a Charles Chaplin. I primi piani keatoniani. La parafrasi del duettare alla Laurel & Hardy. E Bud Spencer lo spiegava così: “Le nostre non erano gag fatte solo di battute ma di mimica, erano un racconto fatto di situazione e non solo di copione. Di onomatopee, non di parole. Di tormentoni accattivanti e non di digressioni cervellotiche”.
Meticoloso in tutto
Fu questa una delle ragioni per cui Bud Spencer poté diventare famoso in tutto il mondo, nel cinema sottotitolato di quegli anni. Altra sintesi folgorante di Bud: “È molto più difficile far ridere il pubblico con una alzata di sopracciglio che con una battuta ben scritta”. Lui ci riusciva. Ma quanta preparazione, anche dietro quel singolo gesto. Bud era meticoloso in tutto, non solo sul set. Maniacale se doveva ristrutturare la sua bella villa nell’agro romano di Morlupo, pignolo se doveva rivedere i conti della sua compagnia. Attento alle persone quando era responsabile del personale, attento ai bambini quando li accoglieva. Ricordo che un giorno, mentre firmava autografi un bambino gli chiese il cappellino in regalo. Lui glielo diede subito, godendo della gioia che aveva suscitato nel piccolo. Ma quando si accorse che aveva creato una aspettativa, fin dal secondo bambino della fila (che era rimasto deluso di non poter fare altrettanto) si alzò dal suo autoriale, si mise a contare gli altri bambini che erano nella fila, chiamò un suo collaboratore e gli disse: “Corri a comprarmi diciotto cappellini in quel negozio, che intanto io temporeggio con le signore”. Questo era Bud.
Le pagine meno note
Le pagine più avvincenti della sua biografia, a mio avviso, tuttavia erano quelle meno note. Tre anni passati in Sudamerica fra il 1957 e il 1960, Carlo Pedersoli, prima di diventare Bud lavorava in Amazzonia per conto di una ditta, che si chiamava Simar. Poco dopo, a Caracas, in Venezuela, divenne direttore dell’ufficio ricambi dell’Alfa Romeo. Caldo, scenari esotici, rivoluzioni, strade da asfaltare nella giungla. Mi colpiva come tutti questi mondi, visti con occhi giovani, divennero poi lo scenario dei suoi film nell’età del successo. L’ambientazione esotica della coppia Spencer-Hill, le canzoni finto americane degli Oliver Onions, il sapore internazionale della memorabile serie di “Piedone” (oggi purtroppo dimenticata), venivano da quegli anni e da quelle memorie giovanili. Bud amava dire: “Il cibo è la mia love story più antica”, e immaginava la sua stessa esistenza come un grande copione: “La vita – scrive in quella autobiografia – è un film di cui qualcuno ci ha raccontato l’inizio ma di cui nessuno conosce il finale. Sono curioso di scoprire il mio”. Ci ha lasciato nel 2016, e qui le due anime di un uomo si sono di nuovo divise. Carlo Pedersoli è andato a scoprire il suo finale, mentre Bud Spencer è diventato – come tutti i granassi personaggi – immortale. Il francobollo che lo ricorda è il certificato filigranato che rende eterna questa straordinaria avventura.