Due volte direttore del Corriere della Sera, di cui ora è editorialista, Ferruccio De Bortoli ha guidato anche Il Sole 24 Ore ed è stato amministratore delegato di Rcs Libri. Autore di saggi di successo, è uno dei giornalisti italiani più noti e autorevoli.
Direttore, cosa significa per un’istituzione come Poste Italiane raggiungere il traguardo del 160 anni?
“Significa essere parte della storia del nostro Paese e avere contribuito a farla, questa storia. Che è poi il destino delle istituzioni che durano nel tempo svolgendo un ruolo importante. Ovviamente esse attraversano stagioni diverse nell’evoluzione della propria attività e non sempre scrivono pagine indelebili. Ma chi ha una grande storia ha anche una grande responsabilità, che è quella di inventarsi il futuro. 160 anni sono un traguardo importante ma anche una grande responsabilità”.
Che ricordi la legano alle Poste?
“Ogni italiano ha tantissimi ricordi che si intrecciano con la storia di Poste e del suo servizio. Ovviamente ognuno di noi, soprattutto chi ha un’età più avanzata, ricorda quando il solo modo di restare legati alla propria famiglia, alla fidanzata, agli amici, era rappresentato da una lettera, da una cartolina, da un telegramma. Se dovessi scavare nei miei ricordi troverei molte attese, molte apprensioni, molte gioie, qualche dispiacere. Insomma, il legame con il mondo, la famiglia, con gli amici era rappresentato, prima che si arrivasse ad utilizzare più frequentemente il telefono, semplicemente dalla corrispondenza postale. Un ricordo, per esempio, va alla posta aerea, che aveva quella particolare leggerezza ed era fatta di carta di riso, così simili alla leggerezza e alla preziosità della carta su cui si stampavano i giornali che venivano venduti all’estero. Sono sensazioni palpabili, fisiche, che fanno parte dei ricordi di ciascuno di noi. Detto questo, aggiungerei che mettendo insieme un po’ di ricordi si crea l’unità nazionale, si crea una memoria condivisa”.
Nel 1999 lei è stato il primo giornalista a mettere in calce agli articoli l’indirizzo di posta elettronica.
“Potrei rispondere: e mal me ne incolse! Perché mentre una volta rispondere alle lettere dei lettori era una forma di cortesia, con la posta elettronica è diventato un obbligo. Chi non risponde è per definizione un maleducato, e ovviamente la posta elettronica è un modo per entrare nella casa, nell’ufficio di ciascuno di noi senza bussare. La corrispondenza postale aveva rispetto della privacy: la lettera doveva essere accolta, doveva essere aperta, richiedeva un atteggiamento più attivo nel redigere la risposta ed eventualmente spedirla. La posta elettronica ha reso tutto più immediato e veloce ma nello stesso tempo più invasivo e scortese”.
Lei ha recentemente fatto riferimento alla necessità di ricostruire il valore della comunità.
“L’eredità più importante e non necessariamente negativa, anzi, io credo per certi versi piuttosto positiva, che questi ultimi due anni ci hanno lasciato, è stato il senso di comunità. Si è fatta strada l’idea che la nostra salute, la nostra libertà dipendano molto più di un tempo dal senso di responsabilità e dal rispetto degli altri e della propria comunità. Si è affermato un valore di libertà individuale all’interno di un quadro di responsabilità collettiva. Questa, se vogliamo, è l’eredità positiva che ci lascia il Covid. L’idea che ci si può salvare insieme a tutti gli altri avendo più rispetto degli altri. È il messaggio più importante, la sintesi più vera e più efficace di quanto è successo. Questo ovviamente comporta la necessità di un maggiore senso civico, di un rispetto delle regole, di uno sforzo di solidarietà nei confronti degli altri. Penso che questo possa essere, se ragioniamo bene, un vantaggio competitivo per il nostro Paese nella prospettiva di un cambiamento del paradigma economico-sociale, che ora assegna un’importanza decisiva all’inclusione e alla socialità”.
Lei che ha preso molti premi, quale premio assegnerebbe a Poste che compie 160 anni?
“Darei a Poste una bandiera italiana da esporre in tutti i suoi 13 mila uffici, ovviamente tenuta come si deve per rispetto della nostra identità nazionale. Per concludere la nostra conversazione voglio segnalare la cosa che più mi colpì quando ci furono le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia: all’ingresso della bellissima mostra organizzata a Torino c’erano dei sacchi postali pieni di lettere e cartoline scambiate tra i soldati al fronte e le famiglie lontane, durante la Prima Guerra Mondiale. Scritte magari da altri perché non tutti i soldati sapevano scrivere, quelle cartoline hanno unito il Paese, l’Italia, con i sentimenti. Non c’erano le telefonate, non c’era niente. Direi che le Poste sono state il primo vero grande social network italiano. Ma anche lo strumento che, durante la guerra, ha consentito al Paese di sentirsi unito. Le Poste potrebbero ragionare su ciò che hanno rappresentato in termini di identità nazionale, in termini di fiducia collettiva quando hanno iniziato a gestire il risparmio, soprattutto quello dei più poveri, di quelle persone che si mandavano un vaglia. Penso agli emigrati e al loro rapporto con le famiglie che avevano lasciato in Italia, o a quelli che dal Sud erano venuti a cercare lavoro al Nord. È quella fiducia che le Poste devono stare attenti a non tradire, soprattutto quando offrono degli strumenti di risparmio postale. Qualche errore in questi anni è stato fatto. Nel dna delle Poste c’è la consapevolezza di essere i depositari della fiducia collettiva, anche per quanto riguarda il risparmio. È un patrimonio e una grande responsabilità. Mia madre fece dei Buoni Postali per i miei figli e oggi loro li conservano perché sono un ricordo della nonna. Sono insomma il valore, non solo dei rendimenti, ma degli affetti. Infine, e lo dico con soddisfazione, Poste ha saputo competere al livello di Amazon sul mercato della logistica dei pacchi. Quella di Poste con il colosso dell’e-commerce è una sfida vinta che rende orgogliosi tutti noi italiani”. (Isabella Liberatori)