Roma 1960: quando Poste salì sul podio alle Olimpiadi nell’Italia che cambiava volto

Fu l’anno dei “pugili Postini”: la mattina portalettere, la sera campioni, perché sembrava che in quell’anno tutto potesse accadere. Roma, 1960, una Olimpiade come un grande racconto, come una impresa di squadra che porta stampigliato sopra un simbolo inconfondibile: un timbro postale. Francesco Musso, di Acqui Terme, aveva la faccia del bravo ragazzo e i lineamenti minuti, vestito con la giacca della divisa olimpica poteva sembrare lo studente di un college americano, ma di giorno imbucava lettere nelle cassette postali. Carmelo Bossi, detto “Melo”, era figlio di una fruttivendola, e aveva la mascella quadrata del combattente: lavorava per le Poste a Milano. Francesco, sostituendo la divisa olimpica a quella di postino, riuscì a vincere una medaglia d’oro, “Melo”, passando dalla scrivania alla palestra, arrivò fino all’argento. Per entrambi fu il punto più alto di due carriere parallele che sembravano una fiaba: per l’azienda furono due medaglie che coronavano simbolicamente un percorso unico.

L’anticamera del boom

Le immagini dell’epoca di Roma 1960 sono in bianco e nero, e oggi sembrano un po’ sgranate, ma restano come una testimonianza potente di un anno olimpionico in cui l’Italia (e con lei Poste) fece il grande balzo, lasciando il suo segno su Roma, nell’albo d’oro, e – ovviamente – nella storia. Cambiava l’Italia, che entrava nel suo indimenticabile boom economico, cambiava la città come per raccontare questo terremoto, sorgevano a tempo di record, a Roma, strade, quartieri e palazzetti, e l’azienda accompagnava questa portentosa mutazione con un apparato impressionante di Uffici Postali e telescriventi, apparati tecnologici vari, invenzioni, affrancature speciali e infine – addirittura – con la favola che diventava realtà: quella di questi due postini che salivano sul podio per prendersi una medaglia e un posto nei palmares. Un lavoro di squadra, e una squadra nella squadra. Una piccola grande storia che è rimasta impressa nelle cronache di sessant’anni fa: l’Italia in fibrillazione per le XVII Olimpiadi di Roma che si sarebbero disputate dal 25 agosto all’11 settembre del 1960, l’impresa sportiva (e industriale) che diventano un affluente nel grande fiume del boom. Si trattava del punto di svolta di un’epoca: eravamo gli stessi italiani che erano stati costretti a partire – solo dieci anni prima – con le valigie di cartone in spalla. E adesso – invece – potevamo sognare di conquistare il mondo. Eravamo stati, solo dieci anni prima, un paese di macerie ed eserciti occupanti, e adesso eravamo una nazione che vinceva nel segno dell’azzurro. Eravamo stati una potenza essenzialmente agricola e manifatturiera, e adesso entravamo nel turbine della tecnologia, delle invenzioni, dei brevetti, che molto spesso – come in questa occasione – erano tenuti a battesimo, o declinati nella realtà, proprio da Poste.

Benvenuta modernità

Poste nel 1960 arredò la Roma olimpica con la sua infrastruttura e i suoi servizi, spingendosi fino a far costruire (pensate) un Ufficio Postale-motoscafo che faceva la spola fra i due lati del laghetto dell’Eur, a metà strada fra la “Piscina delle Rose” in cui si sarebbero disputate le gare di nuoto e il Palasport. Non era solo uno strumento, o in servizio: era un lusso, era un simbolo. Era la prima volta che una azienda entrava in maniera così organica dentro una dimensione moderna di servizio: perché senza “Poste e telecomunicazioni” quel racconto non ci sarebbe mai potuto essere. Non esisteva internet, non esistevano i fax, e dunque gestire quell’evento significava assicurare servizi impeccabili agli atleti, al comitato Olimpico, alle delegazioni, ai giornalisti della carta stampata, delle radio, delle televisioni in tempo quasi reale: “500.000 parole all’ora – questo era l’obiettivo – per via telegrafica”. Perché questo potesse accadere l’azienda disseminò Uffici Postali mobili e uffici postali “da campo” in tutti i luoghi dove si celebravano gli eventi dell’Olimpiade, a partire dal villaggio olimpico, e dalle piste dove si disputavano le gare: ogni medaglia a Roma, diventava un telegramma nel mondo.

Tecnologia all’avanguardia

Furono le Poste a infrastrutturare decine di sale stampa nella città, per i giornalisti con telescriventi e telefoni, e persino il campeggio internazionale di Monte Antenne (dove si riversarono cinquemila turisti accorsi nella capitale appositamente per l’evento). E le telescriventi, di piccolo formato, entrarono – per la prima volta – nelle camere d’albergo, per consentire ai giornalisti di scrivere e trasmettere i loro articoli in tutto il mondo. In città vennero posati (sempre da Poste) chilometri e chilometri di nuovi cavi per collegarle con le centrali telex. Anche ponti radio e i ripetitori radio-televisivi furono potenziati dall’azienda. Ma il vero prodigio tecnologico – per l’epoca – fu l’installazione nei principali Uffici Postali di moderne “postazioni fototelegrafiche” per trasmettere ai giornali le immagini scattate dai fotoreporter. Erano arrivati così, in Italia, gli antenati degli scanner. E solo per questo servizio, raccontava la rivista Poste e Telecomunicazioni in un memorabile numero del 1960, si spesero 5 miliardi di lire: non siamo ancora alla trasmissione in tempo reale ma manca poco. Tutto accadeva, tutto sembrava possibile, tutto si realizzava in uno straordinario gioco di squadra. Nelle centomila fiaccole che aprirono quell’Olimpiade, quella di Poste fu una delle più luminose. Anche nel nome di Francesco (oggi splendido ottantenne) e Melo (che oggi non c’è più), nel segno di una impresa senza tempo. Michael Jordan, in una frase che è diventata celebre, disse: “Con il talento si possono vincere le partite. Ma è solo con il gioco di squadra e con l’intelligenza, che si possono vincere i campionati”. Potrebbe essere una epigrafe perfetta, anche per questa impresa.

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