Alla fine Gianluca Vialli non ce l’ha fatta. Diceva «lo so di essere importante per gli altri. Pensano se ce la fa lui, ce la posso fare anch’io». Ma in questo mondo c’è sempre qualcosa più forte di noi, contro cui non si può fare niente. Anche se sei stato un ragazzo fortunato. E Vialli è stato un ragazzo fortunato, un centravanti di muscoli e cervello che poteva sorridere alla vita, perché vincere guardando il mare è un’altra cosa, negli anni della bella gioventù fra le strade di Genova, affacciati a Boccadasse e a far festa alla Beccaccia o in quel ristorante di via XX Settembre, che lì chiamano solo via Venti, belìn!, come la vuoi chiamare? C’era la mamma di Pagliuca che arrivava con i tortellini freschi da Bologna e li faceva anche per Mikhailichenko che abitava al piano di sopra, c’era Cerezo che appena finiva di giocare si metteva a dormire e non lo svegliava più nessuno e c’era Boskov, papà Boskov, che una volta li vide un po’ spaventati e allora disse con quel suo accento da attore comico che finge di essere slavo «tranquilli, questi non sanno neanche dov’è il Nord e dov’è il Sud». Scoppiarono tutti a ridere e la paura passò. Poi c’erano loro, i fratelli gemelli, l’artista e il goleador, Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Dormivano nella stessa stanza, Vialli che russava e Mancini che si svegliava per prepararsi un toast al prosciutto, vivevano per strada tra Nervi e Quinto, uno che se ne andava in giro a passeggiare col berretto della Samp in testa e l’altro che organizzava una batteria di scherzi senza fine: «A volte penso di aver vissuto qualcosa di unico, di straordinario. Credo proprio di essere stato fortunato». Ma se c’è una cosa che ci viene da dire è che non ha buttato via la sua fortuna, ne ha fatto un tesoro e ha ascoltato la sua lezione. Perché anche la fortuna ha qualcosa da insegnarci.
Lo scultore che sa trasformarsi in pittore
E’ così che Vialli ha avuto il merito di crescere e diventare un’altra cosa, perché ha saputo non buttare via niente di quel che ha avuto. E’ stato un giocatore molto diverso dallo stereotipo classico dell’atleta solo muscoli e nessun pensiero, più calci che parole. Aveva studiato, era di buone letture e sapeva capire le cose. Amava gli scacchi che aveva imparato a giocare dallo zio nelle giornate di pioggia quando il mondo era diverso e non c’era ancora la playstation. Da calciatore era salito in cima all’Italia con la Samp e gli era mancata la scalata al mondo per un nonnulla, una punizione di Koeman. Aveva voluto riprovarci con la Juventus e non col Milan degli Invincibili, per conquistare qualcosa dal versante più difficile, in cui avrebbe contato di più, e ci era riuscito. Da discolo a capobranco, sempre cambiando, sempre crescendo. All’Avvocato che aveva paragonato Baggio a Raffaello e Del Piero a Pinturicchio, gli chiesero chi fosse allora Vialli, e lui disse: «Mi faccia pensare. Direi il Michelangelo della Cappella Sistina. Lo scultore che sa trasformarsi in pittore». Lui non ha mai smesso di migliorare. Dalla Juve passò al Chelsea, ne diventò allenatore e vinse la Coppa delle Coppe. Diceva che per fare il mister gli era servito molto conoscere gli scacchi. Ma continuava a crescere, dirigente e poi commentatore a Sky, forse il migliore, perché il bravissimo Bergomi alla fine è una bandiera dell’Inter e anche se non vuole si vede. A occhio e croce la squadra del cuore di Vialli era pur sempre la Sampdoria, quella della memoria, dei ragazzi fortunati alla scuola di papà Boskov, un riferimento comunque non divisivo.
Il segreto della felicità
Quando è arrivata la malattia, si è ritirato quasi da tutto, prima che Mancini lo chiamasse accanto a sé nella nazionale, immortalando il suo destino in quell’abbraccio di lacrime e di ricordi dopo la finale di Wembley, perché anche se il tempo è andato via, possiamo sempre ritrovare qualcosa per essere felici. E’ strana la vita. Una volta Vialli disse che «la vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento per come la affrontiamo». La morte sta quasi sempre in quel dieci per cento e quando arriva non c’è retorica che tiene e non ci sono guerrieri ma solo uomini, perché come diceva Totò è una livella e in quell’attimo fatale torniamo ad essere tutti uguali, tutti così piccoli e sconfitti di fronte all’immutabile immensità dell’universo. Però quel che accade prima fa parte dell’altro 90 per cento, e l’eroe sfrontato che cercava nella vita la lietezza che deriva dal successo è stato capace di porgere di sé agli altri un’immagine persino cristica, in cui la malattia diventava un luogo di dolore e di trasfigurazione del male in bene e viceversa. Su quell’altare di sofferenza è arrivato a dire che «non è vero che il cancro è questo grande nemico da sconfiggere, è una sfida per cambiare se stessi», per insegnare agli altri quello che la normalità dolente della vita gli offriva nel suo tramonto: «Sono stato un giocatore e un uomo forte, ma anche fragile. Adesso sono qui con i miei difetti, le paure e la voglia di far qualcosa di importante». Però, nei colori vespertini del giorno che si chiude, non ha mai smesso di cercare una luce, qualcosa che avesse imparato da dire agli altri, ed è questo che ha fatto di Vialli un eroe qualunque dei nostri giorni, un padre, un amico, uno che piangiamo per quel che è, e non per quel che è stato: «Ho meno tempo di essere da esempio adesso che so che non morirò di vecchiaia. Cerco di essere un esempio positivo per i miei figli perché gli esempi contano più delle parole. Cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, ma ascoltare di più e parlare di meno. Ridere spesso, aiutare gli altri. Questo è il segreto della felicità».
L’Uomo nell’arena
Forse sarà vero che come disse Prevert riconosciamo «la felicità solo dal rumore che ha fatto andandosene». Se Vialli è stato capace di insegnarcela nel momento più difficile è proprio perché non ha mai buttato via niente di quel che ha ricevuto. Solo lui poteva leggere il discorso di Roosevelt ai giocatori prima della finale di Wembley, perché niente come quelle parole riassume quello che il ragazzo fortunato che guardava il mare da Boccadasse ha cercato di essere e di imparare in tutti gli anni che gli ha concesso il cielo: «Non è colui che critica a contare… L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e di mancanze. L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una giusta causa. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta». Ha combattuto nell’arena, e ha vinto e ha perso, Gianluca Vialli. Il Michelangelo della Cappella Sistina evocato da Gianni Agnelli è stato capace di fare qualcosa di più, di non tradire mai se stesso, come poi cerchiamo di fare tutti noi che non siamo eroi e non siamo niente. E’ questo che ce lo rende così vicino. Il ragazzo fortunato, e tutto il tempo felice che se n’è andato via non ci hanno lasciato solo le lacrime del ricordo. Ci hanno lasciato la sua volontà, anche soltanto l’illusione che nessuno di noi ha vissuto invano: la forza di vivere fino all’ultimo come l’Uomo nell’arena.