Gli ultimi due anni hanno riportato alla mente storie che sembravano dimenticate: le sanificazioni delle lettere non sono nuove a Poste Italiane, così come gli interventi in soccorso dei luoghi colpiti dalle alluvioni e dai terremoti, senza dimenticare, purtroppo, le guerre.
Con il colera la posta non si fermò
Con il coronavirus siamo tornati a un tempo lontano funestato da epidemie terribili, peste, vaiolo, tifo e colera, senza le certezze di una società invincibile, capace di essere reale e virtuale insieme. Durante il colera del 1873, per cui furono imposte severe misure sanitarie per tutte le navi anche provenienti dall’estero, Venezia e Genova finirono isolate con la paralisi del commercio. Un documento dell’epoca sottolinea che “si posero in opera tutti gli sforzi diretti a ridurre i danni e a tenere vive nel miglior modo possibile le comunicazioni postali”. La quarantena e il blocco delle navi erano da sempre le misure più diffuse. L’origine della quarantena sarebbe dovuta a un fatto accaduto nel 1347 quando ai passeggeri di un vascello attraccato a Dubrovnik in Croazia fu imposto di attendere per un periodo di 30 giorni, poi esteso a 40, prima di poter scendere sulla terraferma in modo che non si diffondesse la peste. Alla fine dell’800 invece cessarono le misure per disinfettare le lettere: nel 1886, grazie agli studi di Filippo Pacini e di Robert Koch, venne studiato e isolato il batterio che isolava il colera e soltanto allora ci si rese conto che tutti gli sforzi fatti fino a quel momento erano inutili, perché le lettere non potevano trasmettere la peste né il colera. Da allora, il servizio postale è diventato ancora più importante nei giorni difficili di un’epidemia. Per il colera del 1910 “aumentò considerevolmente la corrispondenza perché vennero emessi dalla Direzione Generale della Sanità, dai Comitati della Croce Rossa e dagli uffici sanitari numerosissimi telegrammi per le necessarie misure profilattiche”, come attestato da un documento dell’Archivio delle Poste: più un milione e 160.913 rispetto all’esercizio precedente.
Due miliardi di cartoline dal fronte
Diceva un giovane Piero Calamandrei, futuro padre della patria, raccontando della sua esperienza nella Grande Guerra: “La posta è il più grande dono che la patria possa fare ai combattenti”. Aveva ragione: milioni di italiani, separati da frontiere e trincee, continuarono a comunicare in quei giorni feroci, grazie a lettere e a cartoline. Gli uffici postali si trasformarono nell’emergenza, divennero armadi e bauli da viaggio, corredi di emergenza trasportati dall’esercito, apparati essenziali compressi in forma di bagaglio che una volta arrivati a destinazione si trasformavano rapidamente in uno strumento di servizio a cui nulla mancava: bolli, moduli, timbri e affrancature. Durante la Prima Guerra Mondiale le Poste tennero unita l’Italia nei modi più disparati: in furgone, in mulo, in alcuni casi persino in slitta, per traversare l’ostacolo della neve. Due miliardi e mezzo di cartoline attraversarono il Paese accompagnate da una obliterazione aggiuntiva: “Verificato per censura”. Non si potevano citare i luoghi e le date, perché non si poteva rischiare di dare informazioni al nemico: occhi attenti vagliavano la corrispondenza. Il filo giallo di Poste, quando si cala nella storia, si lega intorno alle difficoltà dei tempi, aderisce ai problemi, senza mai spezzarsi. La Grande Guerra, fra le altre cose, produsse “i PCP, i pacchi a prezzo calmierato”. Potevi spedire un pacco a tariffa speciale, cioè, se restavi sotto un rigoroso standard, un chilo e mezzo di peso. Fu in questo modo che, “da” e “per” le zone di guerra partirono nove milioni di pacchi pieni di ogni ben di Dio: generi di conforto, cibo e calze pesanti per proteggersi dal freddo.
Il ruolo di Poste dopo l’alluvione del ’66
Tutti dicono l’alluvione di Firenze, ma quella del novembre del 1966 fu anche l’alluvione del Veneto, del Trentino, dell’Emilia Romagna e della Toscana. Quella mattina del 4 novembre del 1966, nel giro di poche ore il servizio postale si interrompe in oltre 270 uffici postali; 700 uffici telegrafici sono isolati, 210 utenze telex interrotte, 700 località restano prive di collegamenti telefonici; quasi 200.000 utenti telefonici, di cui 135.000 solo a Firenze, sono isolati. A Roma, Milano, Bologna nello stesso giorno dell’alluvione si formano tre autocolonne del Ministero delle Poste, con gruppi di pronto intervento, che convergono su Firenze per ripristinare le comunicazioni telefoniche e i ponti radio. Si interviene anche nelle altre città e nelle altre regioni colpite dall’alluvione. Il 5 novembre – a poco più di 24 ore dall’inizio dell’alluvione – i tecnici delle Poste rimettono in funzione le comunicazioni telefoniche con il Nord Italia e le comunicazioni radio Firenze-Roma, Firenze-Bologna, Firenze-Milano. Rapporti, disposizioni, aggiornamenti riprendono a viaggiare per telegramma, telescrivente, telefono, trasmissioni radio. Nelle campagne allagate arrivano mezzi speciali delle Poste. Hanno la forma oblunga di un autobus, ma sono in realtà degli uffici postali mobili, dove spedire lettere e telegrammi, prelevare risparmi, ritirare pacchi e lettere. Sono impiegati e autisti e portalettere delle Poste a portare alla popolazione acqua potabile, viveri, coperte. Nei Centri Regionali Automezzi, di Roma e di Bologna, i dipendenti delle Poste riempiono centinaia di taniche di acqua potabile, le caricano sui furgoni e le portano dove serve.
La forza di Poste nella ricostruzione
Un uomo cammina lungo le rotaie della ferrovia, più di cento anni fa. È coperto di polvere. E negli occhi conserva incredulo le immagini che ha raccolto fra le macerie della città, dopo essere sopravvissuto al disastro. È successo a Messina, all’alba del 28 dicembre 1908, mentre la gente era immersa ancora nel sonno. “Servizio urgentissimo – precedenza assoluta – Direzione provinciale Poste Siracusa – Scampata miracolosamente vita, disconosco sorte miei compagni, Messina distrutta – Antonino Barreca”. C’è l’impegno di un uomo delle Poste nella lenta, complicata rinascita di Messina e Reggio Calabria, a cominciare da quella prima notizia che, sul filo del telegrafo, raggiunge l’Italia e persino l’America, il mondo. E c’è l’impegno di Poste nella ricostruzione, giorno dopo giorno, di un tessuto umano e urbanistico sfigurato, che chiede prima soccorso e poi sostegno per ricominciare. I pacchi contenenti materiale deperibile vengono restituiti al mittente o distrutti, mentre è favorito l’invio di pacchi con medicinali, indumenti, oggetti di soccorso. La popolazione vuole conoscere la sorte dei propri congiunti: se morti, dispersi, feriti o scampati all’immane catastrofe. Pur nello sfinimento morale della tragedia, lentamente ma con fiducia, si torna alla vita. Un cammino che sarà ripercorso per ogni altro cataclisma a venire. Nelle parole della Rassegna Postelegrafica pubblicata nel dicembre 1980, per il terremoto in Irpinia (novembre 1980), ritroviamo la stessa forza di Antonino Barreca e dei suoi contemporanei, la stessa energia vitale degli operatori postali dell’Aquila (aprile 2009) e di Amatrice (agosto 2016).
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