Gianluca Vialli, calciatore prima e poi allenatore e dirigente sportivo recentemente scomparso, è stata una figura chiave del calcio italiano, e non solo. In questi giorni sono diversi a ricordarlo, e non si tratta solo di figure provenienti dal mondo dello sport: sulle pagine del Corriere della Sera, per esempio, è lo scrittore e professore Alessandro D’Avenia a parlare del campione italiano.
Gianluca Vialli, un eroe del calcio
“Gianluca Vialli – scrive D’Avenia – è stato, nella mia adolescenza, un eroe di quello strano sport contro-evoluzionistico per cui l’abilità non dipende dalla mano, che ha reso l’uomo uomo, ma da un arto molto meno preciso: il piede (pedestre è un’offesa: ‘è fatto con i piedi’)”. “Eroe – spiega il professore – originariamente significava semplicemente ‘uomo’, ma per essere pienamente uomini o donne ci vuole la qualità che si è saldata alla parola eroe: il coraggio. Quello di rispondere di noi stessi, intervenendo nella realtà grazie a una forza interiore che ci abita (desiderio) e ci spinge a essere un ‘mai prima d’ora e mai più dopo’. Questo rende ogni persona eroe/eroina: insostituibile. Una vita compiuta è quindi una vita che prova a rispondere a una chiamata: che cosa puoi essere e fare solo tu?”.
L’importanza del “maestro”
La “chiamata” di Gianluca Vialli era chiara fin da bambino, quando “giocava tutto il giorno a pallone nella casa di campagna a Grumello”. Questo però non gli bastava “e andò a piazzarsi, sempre e solo in attacco, sul campetto dell’oratorio di Cristo Re a Cremona. È la storia di molti bambini, ma la differenza sta nel fatto che, quella chiamata, venne presa sul serio da qualcuno: così un destino diventa destinazione. Entra in scena Franco Cistriani, professore di Italiano che si divertiva ad allenare i giovanissimi del Pizzighettone, squadra in provincia di Cremona”. Quella di Franco Cistriani, definito dallo stesso Vialli “il mio primo maestro”, è una figura chiave, essendo il maestro “che ci mette in condizioni di rispondere alla chiamata”.
Una vita autentica
Non basta, però, l’amore per il calcio e l’aiuto di un maestro. “Quest’uomo – racconta ancora D’Avenia – non solo sapeva e amava fare il suo lavoro, era altresì capace di stringere e coltivare, anche in malattia, relazioni buone (famiglia e amici). Benché i medici lo frenassero, non rinunciava a trovarsi con gli amici e a lavorare fino a che ha potuto. Amore per il nostro da fare quotidiano e relazioni buone: due elementi che definiscono una vita riuscita”. “Quando invece la vita diventa la risposta alla chiamata autentica, la morte non è una sconfitta ma, come nel calcio, la fine della partita. Il tempo della partita finisce (di-partita) per tutti, ma il punto è se il fischio finale, a prescindere dal risultato, ci ha sorpresi ‘in azione’, l’azione di rispondere come solo noi potevamo fare. In questi ultimi tempi – conclude lo scrittore – sono morti tanti ‘eroi’, ma è facile distinguere chi era solo ‘famoso’ e chi invece è stato ‘uomo’, cioè ‘divino’: intorno a lui/lei è fiorita la vita e non solo l’ego”.