Nessun pentito ha collaborato per la cattura di Matteo Messina Denaro. La chiavi per arrivare al superboss sono state la meticolosa raccolta di una serie abnorme di informazioni confrontate tra i tanti reparti dei Carabinieri e le banche dati dello Stato (tra queste quelle del ministero della Salute e delle Regioni), il lavoro di investigazione in strada e le intercettazioni telefoniche. È quello che la componente investigativa dell’Arma definisce il “metodo Dalla Chiesa”, così chiamato perché ispirato dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre del 1982 a Palermo (il Ministero dello Sviluppo Economico e Poste Italiane gli hanno dedicato un francobollo – nella foto – nel 2020 per il centenario della sua nascita). Il metodo lo spiega lo stesso Comandante Generale, Teo Luzi: “Per 30 anni abbiamo voluto arrivare alla sua cattura, soprattutto in questi ultimi anni, con un grandissimo impiego di personale e di risorse strumentali”. E quattro giorni fa è arrivata la svolta e la decisione del blitz.
Tra byte e faldoni, il metodo Dalla Chiesa
Dunque, un’indagine tradizionale che ha una ferma consapevolezza: “Senza intercettazioni non si possono fare le indagini di mafia”, sottolinea il capo dei pm di Palermo, Maurizio de Lucia. Il bandolo della matassa, in quel mare di byte e faldoni, erano i dati che in qualche modo facevano riferimento alla malattia del padrino di Castelvetrano, a causa della quale prenotava visite, terapie e interventi sotto il falso nome di Andrea Bonafede, con tanto di codice fiscale. Le indagini che hanno dato impulso alla cattura sono state le due operazioni chirurgiche, una per un cancro al fegato, l’altra per il morbo di Crohn. Una delle due operazioni peraltro era avvenuta in pieno Covid. I magistrati e i carabinieri hanno scandagliato le informazioni della centrale nazionale del ministero della Salute che conserva i dati sui malati oncologici. Confrontando le informazioni captate con quelle scoperte gli inquirenti sono arrivati ad un certo un numero di pazienti. L’elenco si è ridotto sulla base dell’età, del sesso e della provenienza che, sapevano i pm, avrebbe dovuto avere il malato ricercato.
La falsa identità
Alla fine tra i nomi sospetti c’era quello di Andrea Bonafede, nipote di un fedelissimo del boss, residente a Campobello di Mazara. Dalle indagini però è emerso che il giorno dell’intervento, scoperto grazie alle intercettazioni, Bonafede era da un’altra parte. Quindi il suo nome era stato usato da un altro paziente. Quattro giorni fa le indagini hanno poi confermato che la mattina del 16 gennaio 2023 Messina Denaro, alias Bonafede, si sarebbe dovuto sottoporre alla chemio. Certi di essere molto vicini al capomafia i carabinieri sono andati in clinica, poi Messina Denaro è arrivato con il suo favoreggiatore a bordo di un’auto. Non ha opposto resistenza, non ha tentato la fuga. Ha solo detto: “Sono Messina Denaro”. Poi la cattura, come ha sottolineato de Lucia, “senza ricorso alla violenza e alle manette”. È l’ultimo atto per il boss, nel prologo nessuna soffiata o rivelazione: dietro quel momento c’erano solo trent’anni di lavoro accurato, minuzioso, paziente.