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Chiara Francini è stata tra i protagonisti della penultima serata del Festival di Sanremo. Oltre ad averla presentata insieme ad Amadeus e Gianni Morandi, ha anche fatto un monologo sulla sua mancata maternità, entrando in scena con una carrozzina al seguito.

Il testo integrale del monologo di Chiara Francini

Arriva un momento della vita in cui è chiaro che sei diventato grande: quando hai un figlio.

Ora, io, Chiara, un figlio non ce l’ho, però credo sia una cosa dopo la quale non c’è dubbio non potrai più essere più giovane come lo eri a sedici anni, col motorino, la discoteca e il liceo. E arriva un momento, nella vita, in cui tutti intorno a te cominciano a figliare. È una valanga.

Ma… inizia sempre da una che lo sapevi sarebbe diventata mamma prima di tutti. Nel mio caso, la Lucia.

C’è stato un giorno, qualche anno dopo il liceo, che la Lucia mi ha chiesto di vederci. Eravamo sedute al bar della piscina, lei era tutta emozionata e a un certo punto, con una faccia che non le avevo mai visto mi fa: “ODDIOOOOO!!! Finalmente posso dirtelo! Sono incinta!”

Incinta. Quando qualcuno ti dice che è incinta e tu non lo sei mai stata, non sai mai che faccia fare.

Quando qualcuna ti dice che è incinta e tu non lo sei mai stata c’è come qualcosa che ti esplode dentro. Un buco che ti si apre, in mezzo agli organi vitali, una specie di paura, stordimento, e, mentre accade tutto questo, tu devi festeggiare, perché la gente incinta è violenta e vuole solo essere festeggiata. E non c’è spazio per il tuo dolore, per la tua solitudine. Tu devi festeggiare. Come l’albero di Natale che tengo acceso tutto l’anno in salotto, un albero di Natale assolutamente insensato che continua ad accendere le sue lucine, anche a luglio, fuori tempo massimo. Una festa continua senza nessuna natività. E io ho festeggiato.

“Ma Lucia, ma è bellissimo!” … E poi, non sapere più cosa dire. Ed era solo l’inizio, perché di lì a poco mi sembrava che tutti intorno a me avessero avuto, stessero avendo, avrebbero avuto un figlio. Passeggini, passeggini ovunque.

Un esercito di donne coi capelli corti e uomini stempiati con la panza che spingono passeggini con dentro neonati mostruosi e pieni di amore.

E io, io che continuavo a fare le mie cose sempre meglio, sempre guadagnandoci di più, con sempre più persone che mi guardavano e mi amavano. E poi. E poi a un certo punto io mi sono accorta che il tempo passava e che se non mi sbrigavo io, forse, un figlio non lo avrei mai avuto. E se anche mi sbrigavo, poi, non era mica detto. Perché anche quando ti decidi che è il momento giusto poi, magari, il corpo ti fa il dito medio e tu, allora, rimani col dubbio di aver sbagliato, di aver aspettato troppo, di essere una fallita.

A noi donne il senso di colpa ci rimbomba dentro, come un eco. Lo poppiamo fin dal primo vagito. E senza ruttino.

La parte più difficile di fare un figlio è immaginarlo. Immaginarsi come sarà.

E se non mi sta simpatico? E se poi non condivido niente di quello che fa nella sua vita? E se viene troppo diverso da me? Nel mio caso certo che verrà diverso da me!

Ma come faccio con te, bambino? Ancora non ti conosco, ancora non so nemmeno se nasci, se ci riesco a farti nascere, che già non ci capiamo.

Essere figlio di una madre come me ti causerà solo dei problemi. Se sarai maschio io so e, quasi spero, che sarai gay e t’amerò così tanto. Però forse preferirei non lo fossi, perché sarà più difficile e io vorrei che per te fosse facile.

Per favore non essere stupido. Vienimi su brillante, con la battuta pronta. Odia, odia, odia ciò che si deve odiare, il male, l’ingiustizia, perché è con quell’odio che si fa tutto. Non è vero che si fa con l’amore. Sì, con l’amore si fanno delle cose, ma il grosso si fa con quell’odio lì. Profondo, viscerale, instancabile. Non essere, ti prego, una di quelle creature indifese, troppo buone. Perché poi dovrei cercare di difenderti tutto il tempo. E c’è il rischio che tu venga su meno capace di guardare, di camminare. Io vorrei fare come mia madre che non mi ha mai preso nel suo lettone. Piangerai nel tuo letto. Spero di avere la forza di lasciarti piangere. Non devo essere debole.

Ma lo vedi come parlo? Sembra che tutto dipenda da me, come se tu non esistessi già da prima di esistere.

Io da qualche parte penso di non essere una donna capace perché non so cucinare, perché non mi sono sposata e perché non ho avuto figli. Razionalmente so che va bene così, ma da qualche parte, dentro di me, c’è questa voce, esiste, e io, alla fine, penso che abbia ragione lei, che io sia sbagliata.

E io già lo so, bambino, tu mi porterai via tutta la creatività, la luce, resterai solo tu al centro della scena e io sarò una semplice comparsa e poi diventerò grande e poi vecchia e non potrò più fare finta che il tempo non stia passando, perché ci sarai sempre tu, lì, a ricordarmi in ogni momento che la mia gioventù è finita. E penso che mi renderai così felice, che poi non potrai mai rendermi davvero così felice, perché è così che funzionano le cose della vita: non sono mai come te le eri aspettate.

E io ti aspetto e ti desidero così tanto che sarai per forza una delusione. Ma come parlo…? Ma che madre sono? Non sono una madre, intanto…

Da dove mi viene tutto questo? Quanto mi è costato diventare come sono? Quanto costerà a te? E in mezzo a tutto questo bisogno di arrivare, in mezzo a tutta questa rabbia, a questo amore, io, ora, non so dove metterti. O, forse, sei proprio tu che non vuoi venire da me, perché credi che io mi sia dimenticata di te, che io mi sia dimenticata della vita. Perché avevo troppo da fare.