Erano i giorni della disfatta di Caporetto, l’esercito che ripiegava sul Piave, interi corpi d’armata al collasso, 300mila soldati italiani fatti prigionieri e 350mila allo sbando. Quella ritirata durò un mese, dall’alba del 24 ottobre del 1917, quando austriaci e tedeschi avevano aperto una breccia nello schieramento italiano. Le cronache raccontano che sulle nostre linee piovevano tonnellate di gas tossici e proiettili di artiglieria. Noi ci siamo dimenticati cos’è una guerra. Adesso la guardiamo alla televisione o la leggiamo sui giornali. Ma viverla è un’altra cosa. Bisognava resistere, tenere in piedi le comunicazioni. Le Poste erano fondamentali in questa fase. Lei si chiamava Giuseppina Favero, ed era gerente della ricevitoria postale di Maserada, provincia di Treviso. Gli uomini erano andati al fronte, e le donne che avevano preso il loro posto erano più di 13mila, impiegate a vario titolo nelle Regie Poste, come centraliniste telefoniche o ausiliarie telegrafiste. Molte furono promosse al rango di responsabili dell’ufficio, vedendosi affidare oltre al proprio incarico anche quello del direttore. Lo stipendio a fine mese no, erano ancora sottopagate, anche se la guerra stava cambiando tante cose. Nel 1911 le donne alle Poste erano 850, cioè 150 volte di meno. Giuseppina era di quelle salite di grado. In quei giorni piovevano cannonate anche nel suo paese, cadevano i muri e tremavano le strade, ma lei non poteva mollare. E non mollò.
Messe alla prova dal destino
Paolo Marcarelli, ricercatore della Fondazione ProPosta, è andato a sfogliare il “Bollettino del Ministero delle Poste e dei Telegrafi” per cercare le storie di quegli anni. Giuseppina Favero l’ha trovata sotto la voce “Atti di valore”, assieme a molte altre come lei, che hanno ricevuto encomi o medaglie per quello che hanno fatto nei lunghi mesi terribili della Grande Guerra. E lì c’è scritto che Giuseppina “nonostante il tiro delle artiglierie nemiche, seppe continuare imperterrita a disimpegnare il proprio servizio, non ritirandosi se non dopo che fu obbligata dalle autorità militari”. Come un soldato, forse persino meglio. Messe alla prova dal destino, in quegli anni terribili le donne si rivelano impiegate modello, rapide, efficienti, con grande manualità, e anche più disciplinate. Sono tutte caratteristiche di cui l’azienda ha bisogno. Ma a quei tempi la Storia è ancora indietro. Nella seconda metà dell’Ottocento, per lavorare alle Poste le donne dovevano essere nubili o vedove, e se si sposavano erano obbligate a rassegnare le dimissioni. Le regole cambiarono verso la fine del secolo, ma mica di tanto: per lavorare dovevano essere autorizzate dal marito, che nella maggior parte dei casi preferiva tenerle a casa. L’Italia è ancora un Paese arretrato, paragonato dagli storici all’Inghilterra di un secolo prima e alla Germania di inizio Ottocento. Le donne vengono assunte, assieme ai bambini, dalle industrie tessili, perché lavorano da casa. Però adesso qualcosa sta cambiando, ed è proprio la guerra, per assurdo, che accelera la crescita sociale dell’Italia. Le Poste, e le donne, accompagnano e in qualche caso precedono lo sviluppo del Paese in tutti i sensi: durante il conflitto hanno un ruolo fondamentale, perché devono garantire la comunicazione tra i militari e i loro familiari e, in una situazione di grave sbandamento come quella di Caporetto, anche supportare le trasmissioni dell’esercito. In tre anni e mezzo furono scambiate quattro miliardi tra lettere e cartoline, più della metà proveniente dal fronte. La corrispondenza viene portata con i furgoni, ma per salire nei bricchi si va con il mulo e persino in slitta. Le lettere portano una obliterazione aggiuntiva: “Verificata per censura”. Non si possono citare i luoghi e le date, perché non si può rischiare di dare informazioni al nemico. In ogni caso scrivere diventa uno strumento di grande valore pratico ed emotivo, un modo per restare accanto ai tuoi o anche solo per chiedere delle cose utili. Ed è per questo che proprio in quegli anni crolla l’analfabetismo in Italia, passando in così poco tempo dal 48,5 al 27,4.
Elevato senso del dovere
L’altra crescita importante è quella femminile. Ci penserà il fascismo, poi, a fermarla, perché concepisce la donna solo come una madre che deve sfornare numeri da armare con le baionette. Ma il progresso è entrato nella testa, e il segno ormai è tracciato. Le donne in quegli anni lì non hanno preso solo il posto degli uomini. Sono state promosse, hanno diretto uffici importanti, e hanno affrontato il pericolo con coraggio. Come scrive Paolo Marcarelli, “le dipendenti postali, in particolare quelle che lavoravano vicino alle zone di guerra, rischiarono la vita, soprattutto sotto le bombe austro-tedesche, pur di continuare ad assicurare un servizio così essenziale”. Sono tanti gli esempi, come quello di Giuseppina Favero. Così, a Valentina Chiarazza, supplente postale a Grado, è stata consegnata la medaglia d’argento al valor militare “perché nell’esercizio delle funzioni di dirigente di un ufficio militarizzato non abbandonava la sede, crollata sotto colpi di grosso calibro con molte vittime, se non dopo aver messo al sicuro i valori, dando mirabile esempio di alto sentimento del dovere, di sereno coraggio e proficuo sprezzo del pericolo”. Le stesse qualità che ritroviamo in Filomena Cimolato, gerente della ricevitoria di Vas, in provincia di Udine: “Durante l’invasione nemica rimase bloccata nel paese e dopo aver riparato a Mel, venne internata dalle autorità austriache in un campo di concentramento in Ungheria. Ciò nonostante riuscì ad occultare i valori dell’ufficio, finché, al momento del rimpatrio, poté consegnarli alla direzione di Belluno”. Nessuno ha potuto capire come abbia fatto Filomena a nascondere soldi e documenti. Ma ce ne sono tante di donne così: fanno quello che devono senza troppe parole. E riescono pure a farlo fare agli altri. Ida Donadel, reggente dell’ufficio di Mestre, s’è presa un encomio per questo, perché sotto i “ripetuti bombardamenti aerei, con il suo contegno energico e coraggioso infondeva coraggio, fiducia e calma al personale dipendente”. L’elenco delle telefoniste che resistono sotto le cannonate è abbastanza nutrito, ci sono Carmela Chirisola, Giulia Pezzé, Maria Favaro e tante altre, che continuano tutte a lavorare con grande serenità, “dimostrando elevato senso del dovere e mirabile sprezzo del pericolo”. Poi c’è il caso di Ernestina Tapoli, titolare a Cantello, Como, che riuscì addirittura “a far identificare e arrestare una spia il 17 gennaio del 1918”.
Sacrificio e coraggio
Quando finisce la guerra le donne devono tornare al loro posto, come capita a Teresina Gramsci, la sorella di Antonio, che riprende il suo lavoro da impiegata dopo aver diretto l’ufficio di Ghislara. Ma le donne hanno fatto molto più di quello che dovevano e qualcosa bisogna riconoscerlo. Hanno fatto anche i lavori pesanti, nei cantieri, hanno fatto le operaie, le spazzine, e nelle Poste sono state addirittura il dirigente e il soldato. Nel 1919, come logica conseguenza, viene finalmente abolita l’autorizzazione maritale. La donna potrà decidere da sola se lavorare o no. E sotto il fascismo, nonostante il Regime non sia d’accordo, continuerà a farlo. Il ruolo della donna ha nelle Poste una crescita esponenziale, per certi versi superiore a quella del Paese. Oggi l’altra metà del cielo rappresenta il 54 per cento dei dipendenti e il 46 dei quadri dirigenti. Tra le direttrici di ufficio postale, poi, la percentuale sale al 58 per cento, con un’ottima presenza al Nord e al Centro (in Emilia tocca il 79). Solo in Campania, Puglia e Sicilia questi numeri sono inferiori al 50 (e comunque superiori al 30). Anche il 36 per cento delle filiali di Poste è guidata da donne. Ed è una donna la Presidente, Maria Bianca Farina. Ma per arrivare fino a qui, c’è voluto il sacrificio e il coraggio di quelle come Giuseppina e Filomena, delle loro storie e di tutte quelle che non siamo mai riusciti ad ascoltare.