Carmen Verde è solo l’ultima di una strana serie. Il suo esordio, poetico e talentuoso, “Una minima infelicità”, Neri Pozza Editore, è addirittura approdato alla dozzina finale del Premio Strega. Un risultato tanto eccezionale quanto meritato.
Poste e la letteratura
Carmen lavora alle Poste a Roma, nella funzione centrale Risorse Umane e Organizzazione. Niente a che vedere con Henry Chinaski detto Hank, che era un postino ubriacone di Los Angeles con la passione per le corse dei cavalli. Hank era anche e soprattutto una creatura di Charles Bukowski, che per dieci anni aveva scaldato una sedia allo United States Postal Service, facendo anche il portalettere. Il fatto è che letteratura e Poste hanno viaggiato molto spesso una a fianco dell’altra. Anche Fernando Pessoa aveva lavorato in un ufficio postale. Matilde Serao a 18 anni era entrata come telegrafista alle Poste Centrali di Napoli, dal 1874 al 1877. E poi ci sono quelli come Anthony Trollope, pure lui dipendente delle Poste britanniche spedito in Irlanda, Henry James e tanti altri ancora che hanno scelto una ragazza del telegrafo come protagonista dei loro romanzi. Senza contare il Postino di Neruda, di Antonio Skarmeta: “No, è più originale continuare a fare il postino. Almeno cammini molto e non ingrassi mai. Noi poeti siamo tutti obesi”. Che magari non è proprio vero. Invece è molto vero quello che dice Massimo Troisi nel film: “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”.
Il libro di Carmen Verde
Perché entra nelle persone e ci spiega qualcosa della vita. Lo puoi fare raccontando un’epoca o un clima. Carmen Verde ha scelto di affondare la minima infelicità dei suoi protagonisti dentro a un microcosmo familiare claustrofobico, senza panorami di libertà da contemplare alle finestre di qualche stanza, rettangoli di mondo sublimemente liberi dagli ostici affanni di quelle esistenze. La voce narrante è quella di Annetta, costretta nel corpo di una perenne bambina, che resta piccola anche quando passano gli anni e gli altri crescono, prigioniera di un complicato rapporto con la figura materna, Sofia Viver, da cui dipende come se ne venisse schiacciata per via della sua statura. L’altezza della madre non è data dai centimetri, che sono comunque pochi, 1,61, ma dal suo essere algida e scostante, dal vuoto che crea fra di loro ergendosi «come una montagna». Carmen Verde racconta, in un dispiegarsi di emozioni piatte come l’altezza di Annetta che non cresce mai, i pericoli, la solitudine, il vuoto, e le fuggevoli emozioni di una umanità elementare, sollevando la gonna di un mondo apparentemente sicuro e monotono per rivelare un’anatomia di passioni e iniquità dolenti. Attorno a Sofia e Annetta, c’è il padre Antonio, che appare inutile e triste nella penombra del suo negozio, e arriva Clara Bigi, la governante, che introduce nella gabbia della casa la durezza e la cattiveria del mondo esterno.
“Il piccolo più del grande”
Carmen costruisce questo ritratto familiare con uno stile volutamente sobrio, semplice, sempre misurato, ma che rimanda l’immagine di un’antica fabbrica di tessuti, centinaia di pettini simili ad arpe che battono la trama senza posa, mentre i licci alzano e abbassano le due metà dell’ordito, su e giù, su e giù, e poi ancora, in un gioco ininterrotto che si espande sulle pagine. La minima infelicità non può avere altro che quelle parole per essere descritta, ma è la loro ossessiva ricerca a segnarne il ritmo. Come spiega in parte l’autrice: “Volevo che questa piccolezza appartenesse allo stile. Ho cercato una lingua minima e il materiale della mia espressione è una costruzione lessicale che doveva raccontare la storia fin negli spazi bianchi”. È la distanza, che è insieme il vuoto e la sua consistenza, quella che riempie tutti gli spazi lasciati liberi dalla propria dimensione, da una statura inferiore, quello spazio che appare nella testa dei piccoli quando gli metti accanto una persona grande, un vuoto abissale. Dice Carmen Verde che anche per questo a lei interessa “il piccolo più del grande. Io tratto il piccolo come un’immensità, quello che diceva San Francesco parlando dell’infinito che è dentro di noi”. In questa immensità il piccolo diventa un outsider che sfida la logica, che preferisce scomparire nel più assoluto anonimato. “Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne ho avuta anche troppa”, dice Annetta. Nel sacrario senza luce della casa, lei si dedica alla madre, una donna rovinata dall’amore, che tradisce se stessa e non si fa mai trovare dove è attesa, con i suoi vestiti esagerati, le sue feste finte, gli armadi che invecchiano e una fragilità che la opprime. Non c’è riscatto nell’infelicità del titolo. C’è abitudine.
L’infelicità come luogo fisico
Lo psicologo Paul Watzlawick diceva “parliamoci chiaro: cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria”. È l’infelicità che ci spinge a reagire, a superare le crisi. Ma questa non esonda, non rompe mai gli argini. Il fatto è, come è spiegato nel libro, che “l’infelicità non è soltanto una categoria dello spirito. Se così fosse, se si trattasse di una faccenda esclusivamente interiore, chiusa nel segreto del nostro essere, nessuno riuscirebbe a vederla. No. L’infelicità è un luogo, un luogo fisico, una stanza buia nella quale scegliamo di stare”. È una infelicità che ti avvolge, che ti infiacchisce come una mattina d’estate nella sua vizza calura. La sopporti e basta, ci convivi, come se facesse parte di te. “Come ci sono diverse forme di felicità, ci sono diverse forme di infelicità”, spiega l’autrice. “Ne facciamo esperienza attraverso piccole cose. E così un dettaglio, che non è tutta l’infelicità del mondo, può rivelarcene la presenza discretamente. Annetta conosce l’infelicità di sua madre attraverso una stanza nella quale lei si ritira sempre più spesso. Sofia sta in attesa di qualcosa che non arriverà mai. Una volta che sua figlia entrerà per caso la troverà a non far nulla. Da quel giorno l’infelicità della madre si farà ancora più incomprensibile. Quella di Annetta è anche un apprendimento: è la lingua materna che giorno dopo giorno lei assorbe, come una spugna assorbe l’acqua. Una minima infelicità non vuol dire in alcun modo un’infelicità minore. E’ una infelicità su misura della protagonista, che ne ribadisce l’individualità”. E’ un romanzo pieno di vuoti e pene nascoste, con i suoi spazi bianchi e le fotografie che fermano istanti per riportare in controluce il ricordo al presente, che è un presente informe, come i contorni che affiorano da quelle immagini. Un esordio da seguire con molta attenzione quello di Carmen Verde. Lei è nata a Santa Maria Capua Vetere, ma vive a Roma da una vita. I genitori avevano una grande libreria di testi scolastici, un luogo affascinante, rimasto nella sua memoria, con gli scaffali che arrivavano al soffitto, e che ha avuto per lei un valore fondativo: “Io ascendo da quel deposito”. Dalla lettura alla scrittura il passo è breve. Poi si sa, come diceva Borges, “scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio”.
Gli altri libri nella dozzina dello Strega
Oltre a “Una minima infelicità” (Neri Pozza Editore) di Carmen Verde sono stati scelti, tra gli 80 titoli proposti: “La Sibilla. Vita di Joyce Lussu” di Silvia Ballestra (Laterza); “Dove non mi hai portata” di Maria Grazia Calandrone (Einaudi); “La traversata notturna” di Andrea Canobbio (La nave di Teseo); “Come d’aria” di Ada D’Adamo (Elliot); “Ferrovie del Messico” di Gian Marco Griffi (Laurana Editore); “Le perfezioni” di Vincenzo Latronico (Bompiani); “Rubare la notte” di Romana Petri (Mondadori); “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino (Feltrinelli); “Cassandra a Mogadiscio” di Igiaba Scego (Bompiani); “Il continente bianco” di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri); “Tornare dal bosco” di Maddalena Vaglio Tanet (Marsilio)