Assk è una sigla che sta per Aung San Suu Kyi, la signora più importante e conosciuta del Myanmar negli ultimi 40 anni. Premio Nobel per la Pace 1991. Un mito nella difesa dei diritti umani accusata di incoerenza da due lettere aperte che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale. La prima firmata da un gruppo di 23 attivisti, premi Nobel ed ex ministri di vari paesi del mondo; l’altra firmata dal Nobel per la pace Desmond Tutu. Le due lettere hanno distrutto l’aureola di un’eroina dei diritti umani e della democrazia nel suo Paese.
Crimini contro l’umanità
Il Myanmar da decenni è governato da una pesante dittatura militare e la stessa signora Assk ha subito anni di carcere e arresti domiciliari. Nella lettera aperta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, firmata dagli attivisti viene tuttavia criticata soprattutto lei, la ministra degli Esteri Aung San Suu Kyi, per non essere mai intervenuta a fermare la sanguinosa repressione – vero genocidio per alcuni – nei confronti dei Rohingya, una minoranza religiosa di fede musulmana che vive in Myanmar a maggioranza buddista. Quello che sta succedendo, scrivevano nel 2016 i firmatari della lettera, “equivale a un’azione di pulizia etnica, nella quale si stanno compiendo crimini contro l’umanità”.
La lettera di Tutu
Più sorprendente, tuttavia, è la dura critica in termini rispettosi, contenuta nella lettera aperta indirizzata nel 2017 ad Aung San Suu Kyi, dall’arcivescovo anglicano emerito Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace nel 1984. Egli rimprovera il silenzio di “The Lady” sulla questione Rohingya, sollecitandola a intervenire ristabilendo giustizia e rettitudine. Tutu è stato una figura carismatica con Mandela nella lunga lotta contro l’apartheid in Sudafrica. E con Mandela fu protagonista nella transizione pacifica del potere con la riconciliazione tra bianchi e neri. Le parole di Tutu sono molto forti: un Paese che non protegge il suo popolo non è un Paese libero, e per un simbolo di virtù come è stata Aung San Suu Kyi non è coerente guidare un simile Paese.
Dolore e angoscia
“Mia cara Aung San Suu Kyi – scrive Tutu – sono ormai anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma rompo il mio impegno a restare in silenzio sugli affari pubblici spinto da una profonda tristezza per il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana nel tuo paese. Nel mio cuore sei un’amata sorella minore. Ho tenuto per anni sulla mia scrivania una tua foto, per ricordarmi delle ingiustizie e dei sacrifici che hai sopportato per via del tuo amore e del tuo impegno verso la gente del Myanmar. Tu simboleggiavi la rettitudine. Nel 2010 abbiamo gioito per la tua liberazione dagli arresti domiciliari e nel 2012 abbiamo festeggiato la tua elezione a leader dell’opposizione. La tua comparsa nella vita pubblica ha alleviato le nostre preoccupazioni per la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya, ma quello che alcuni hanno definito ‘pulizia etnica’ e altri ‘un lento genocidio’ non si è fermato e anzi, di recente si è accelerato. Le immagini della sofferenza dei Rohingya ci colmano di dolore e angoscia. Sappiamo che tu sai che gli esseri umani possono apparire diversi e pregare in modo diverso – e alcuni possono avere una potenza di fuoco superiore a quella di cui altri sono dotati – ma nessuno è superiore e nessuno è inferiore.
Un prezzo troppo alto
“Sappiamo che sotto sotto siamo tutti uguali, membri di un’unica famiglia, la famiglia umana – prosegue la lettera – Sappiamo che non esistono differenze naturali tra buddisti e musulmani. Non importa se siamo ebrei o indù, cristiani o atei: siamo nati per amare senza pregiudizi. La discriminazione non è una cosa naturale; viene insegnata. Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora quel prezzo è troppo alto. Un paese che non è in pace con se stesso, che non riconosce e non protegge la dignità e il valore di tutta la sua gente non è un paese libero. È incoerente che un simbolo di rettitudine guidi un simile paese e questo accentua il nostro dolore. Mentre assistiamo all’evolversi dell’orrore preghiamo che tu possa essere di nuovo coraggiosa e resiliente. Preghiamo perché tu faccia sentire la tua voce per la giustizia, i diritti umani e l’unità del tuo popolo. Preghiamo perché tu intervenga in questa crisi crescente e riporti il tuo popolo sulla retta via. Con amore. Desmond Tutu”.
La difesa di Francesco
In qualche modo papa Francesco, amico dei Rohingya, difende Assk dalle critiche. “Nel Myanmar – ha detto dopo la visita fatta nel 2017 – la situazione è difficile. È una nazione politicamente in crescita che vive una fase di transizione. Le possibilità devono valutarsi in questa ottica. Se [il comportamento di Assk] è stato uno sbaglio io non saprei dirlo. L’obiettivo è la costruzione del paese, e queste cose vanno avanti gradualmente: due passi avanti e uno indietro. Non vorrei cedere alla tentazione di giudicare”.