Marco Lodoli, poeta, narratore di molti romanzi per Einaudi – gli ultimi “Il fiume”, “Paolina”, “Il preside” – alcuni dei quali sono diventati film di grandi registi, è editorialista su temi che riguardano i giovani e la scuola per La Repubblica. Per uno scrittore come lui è stato naturale sin dall’adolescenza scrivere molte lettere, “avevo una nonna che viveva a Monfalcone dove passavo l’estate, lì conobbi una ragazza e rientrato a Roma durante l’inverno per mantenere i contatti le scrivevo lunghissime lettere, era un modo per abituarsi a esprimere sentimenti veri, è stata la prima forma di scrittura creativa della mia vita”, ammette.
Quella lettera di Guillén
Avendo fatto per tanti anni l’insegnante, dice che “il Romanticismo rispetto all’Illuminismo inventa il romanzo epistolare, la lettera ti mette in gioco romanticamente di più” spiega, “è uno strumento per esprimere i propri fremiti interiori”, anche lui ha usato questa forma letteraria in alcuni racconti, “ti consente di essere più scoperto, di dire le cose più dritte, è una scheggia che ti trapassa e va oltre”. A vent’anni scrisse un piccolo libro di poesie autoprodotto, “lo spedii a Jorge Guillén, maestro della poesia spagnola del ’900, l’unico che conoscevo perché aveva un legame con la mia famiglia” racconta, “mi rispose con una lettera delicata che mi incoraggiava ad andare avanti, una lettera dal cielo della poesia” dice enfatico. Un’altra lettera che lo colpì moltissimo fu quella di Giulio Mozzi, “mi inviava un suo racconto che tra l’altro era in forma di lettera, con un biglietto allegato scritto a mano dove diceva che certe cose bisognava comunque farle come certi brani radiofonici di musica che vanno in onda di notte e magari non hanno nessun ascoltatore”.
La scoperta di sé
Lodoli ha insegnato per tanti anni italiano in un istituto professionale di Roma, ed è stato anche consulente governativo in materia scolastica. In un pezzo scritto per un quotidiano si è finto ministro, dicendo che la missione di un insegnante deve essere quella di “educare, preparare, formare”, glielo ricordo. “Sembrerebbe un luogo comune, invece viviamo in un tempo in cui alla scuola si chiede di preparare i ragazzi alla competitività e all’individualismo, mentre invece credo che il suo ruolo sia quello di guidarli alla scoperta della propria natura, la scoperta di sé stessi che si intreccia con quella degli altri”. Afferma anche polemicamente che “la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, viviamo in un tempo dell’attimo, il passato è passato, quelli della nostra generazione con Dostoevskij, Vivaldi e Leopardi ci stavano parlando, adesso i ragazzi hanno perso contatto con questo patrimonio”.
Salvare lo stupore
Secondo Lodoli, “bisogna agganciare gli studenti al ritmo profondo dell’esistenza”, secondo lui proprio la letteratura svolge questa funzione di conoscenza, “la costruzione delle frasi, la sintassi, la lingua ci avvicinano al pensiero, al ritmo aperto delle cose, all’aspetto misterioso dell’esistenza, a quello occulto della vita”, precisa. In quelle aule dove ha incontrato molte generazioni di giovani secondo lui esiste un universo di verità che va salvato, quello del “fanciullino”, quella cosa che chiama “la natura dell’uomo adolescente”, secondo lui “bisogna salvarla dentro di noi, conservare i sogni, lo stupore, poi nell’età adulta arriverà anche l’inquietudine, la solitudine, però bisognerebbe cercare di non diventare mai del tutto adulti”.