“Già sento su di me fiorire le margherite”. Aforisma per dire la morte, affascinante fin dall’adolescenza. Ignoravo chi fosse quel John Keats che lo firmava. Mi parve un esergo malioso nella biografia di Gabriele dell’Addolorata, giovane santo passionista (1838-1862) morto a 24 anni per una tubercolosi ossea. Scoprii più tardi che Keats era un poeta inglese (1795-1823) morto a Roma, consumato dalla tubercolosi. Un grande del Romanticismo, della bellezza e della verità, autore di lettere e poesie. T. S. Eliot giudica le sue Lettere “le più straordinarie e importanti che siano mai state scritte da un poeta inglese”.
Il viaggio in Italia
Nel tempo ho rintracciato l’aforisma originario di Keats sulla morte. Il giovane poeta – già affermato – era venuto nell’estate del 1820 in Italia per curarsi nel clima più mite il suo male ormai in fase avanzata. Lo accompagnava il suo amico e pittore Joseph Severn che gli rimase accanto sino alla fine raccogliendone le ultime parole: “Presto troverò riposo nella pace della tomba, ringrazio Dio per questa pace. Oh! Mi sento già la terra fredda addosso, le margherite crescermi sopra. Oh, che arrivi presto questa pace, la prima della mia vita!”. Fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma. Per volontà di Keats, sulla sua tomba furono poste margherite e sulla lapide inciso l’epitaffio: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”. Le sue lettere sono un misto di razionalità, quotidianità e poesia. “La valle dell’anima” è la più recente raccolta di lettere intimamente intrecciate con la sua opera poetica. Keats riesce a sprizzare poesia anche in prosa. Tanto è vero che agli inizi del terzo millennio un’acuta critica letteraria aveva pubblicato un testo dal titolo eloquente “Keats. Lettere sulla Poesia”. È come dire vivere di poesia nelle vicende della vita che di poesia ne hanno ben poca.
I temi dominanti
L’epistolario di Keats copre sostanzialmente gli ultimi cinque anni di vita. Le lettere testimoniano la variegata creatività letteraria per la quale viveva e si spendeva intensamente: ampia la sua produzione considerando la breve vita. Le lettere di Keats intrecciano dialoghi con i familiari (fratelli, sorella, fidanzata), con gli amici pur essi in buona parte autori, con gli editori. Temi dominanti delle lettere sono la poesia e la morte che sentiva prossima. “Ho scoperto che non riesco a vivere senza la poesia – senza la poesia eterna – non mi basta metà della giornata, mi ci vuole tutta. Ho cominciato con poco, poi l’abitudine mi ha reso un Leviatano” scriveva a Reynolds il 18 aprile 1817. “La poesia dovrebbe essere grande, ma non indiscreta, qualcosa che ti entra nell’animo – precisava il 3 febbraio 1818 – ma non lo sconcerta, né lo stupisce, se non per il suo contenuto”. La poesia è “apertura verso l’al di là, verso il mondo dell’Altro”. La più grande qualità che un poeta deve possedere è la capacità “di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”. “Devo confessare – scrive l’8 luglio 1819 alla fidanzata Fanny Brawne – che ti amo ancora di più perché credo che ti sono piaciuto per me stesso e nient’altro”. E il 13 ottobre: “Sono sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione – l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te. Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma”.
Anima e intelligenza
Le lettere di Keats sono incredibilmente moderne, composte con una scrittura semplice, diretta e sincera. Su John Keats, così Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrisse: “Talvolta appaiono sulla terra degli esseri che riflettono nella loro esistenza una luce più che umana… Bisogna, per essere annoverati fra gli angeli, morire molto giovani, o giovanissimi cessare qualunque attività artistica; bisogna, va da sé, che questa attività sia di valore supremo; bisogna insomma che la loro apparizione sia fulgida e brevissima… Fra gli ‘angeli’ io ritrovo Raffaello e Masaccio, Mozart e Hölderlin, Rimbaud e Maurice de Guérin, Shelley, Marlowe e Keats”. Tre mesi prima di morire Keats scriveva all’amico Brown: “Scrivere una lettera è per me la cosa più difficile del mondo. Lo stomaco continua a farmi male, e sto ancora peggio se apro un libro – e tuttavia sto meglio di quando ero in quarantena… Riesco a mala pena a dirti addio, anche per lettera. Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo. Dio ti benedica!”. “Chiamate il mondo, vi prego, ‘la valle del fare anima’ – scriveva al fratello nel 1819 – e allora scoprirete qual è la sua utilità. […] Dico fare anima intendendo per ‘anima’ qualcosa di diverso dalla ‘intelligenza’. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente sé stessa”.