Massacro di Katin’ di 22 mila prigionieri, Le Fosse Ardeatine, le foibe, massacro di My Lai, la strage di Bucha, gli stermini in Ruanda: sono alcuni nomi di tragici eccidi, più o meno grandi, tra gli episodi di ferocia che da sempre accompagnano le guerre passate e presenti. Sete assassina che ha disonorato gli autori, alienati i consensi, sconvolto le opinioni pubbliche costrette a confrontarsi per lungo tempo con segreti dolorosi e rimossi. Si dovrebbe convenire ormai che la capacità delittuosa nell’agire si scatena nelle guerre che rimangono un coacervo di violenza impunita.
Un eccidio disonorevole
Uno di questi eventi orribili, noto come il massacro di My Lai consumato nel 1968 in un villaggio del Vietnam, fu scoperto e denunciato grazie a una lettera del soldato americano Ron Ridenhour. Lettera seguita da altre inviate dallo stesso militare al comando dell’esercito e ai membri del Congresso degli Stati Uniti che, aprendo un’inchiesta accurata, tirarono fuori dall’oscurità connivente un eccidio disonorevole. “Signori, era la fine dell’aprile del 1968 che ho sentito parlare per la prima volta di ‘Pinkville’ e di quello che sarebbe successo lì. Ho ricevuto quel primo rapporto con un certo scetticismo. Ma nei mesi successivi, stavo per ascoltare storie simili da una così ampia varietà di persone che divenne impossibile per me non credere che qualcosa di piuttosto oscuro e sanguinoso fosse effettivamente accaduto nel marzo 1968 in un villaggio chiamato Pinkville nella Repubblica del Vietnam”. Sono parole d’apertura nel marzo 1969 della famosa lettera di denuncia del giovane militare.
La missione “cerca e distruggi”
Il nome Pinkville deriva dal fatto che l’alta densità di popolazione faceva apparire la zona in rosa sulle mappe dell’esercito americano. Il piccolo villaggio di My Lai (4-500 abitanti) si trova in questa zona situata a nord est di Quang Ngai dove una Task Force americana doveva mantenere una costante pressione sui vietcong molto radicati sul territorio. Alla Task Force Barker fu assegnata l’undicesima Brigata di Fanteria leggera, della quale facevano parte i soldati della Compagnia Charlie. La compagnia, guidata dal Capitano Ernest Medina, aveva subito molte perdite senza ottenere alcun risultato. Il 16 marzo 1968, però, i soldati entrarono a loro modo nella storia con la missione “cerca e distruggi” i vietcong nel villaggio di My Lai. Quella che doveva essere una normale operazione militare, preparata da Medina e diretta dal giovane sottotenente William Calley, si trasformò in un feroce massacro di civili inermi, per la maggior parte donne e bambini.
La difesa dei vietnamiti
Il famoso giornalista Seymour Hersh, nel suo libro sulla strage ha documentato l’inizio delle uccisioni. Ma senza esito. I vietnamiti del villaggio, al momento dell’inaspettata visita da parte delle truppe USA, non si opposero in nessuna maniera, e si posizionarono tranquillamente sulle soglie delle loro case. La calma, però, svanì all’improvviso, quando si accorsero che i soldati stavano “piazzando” delle mitragliatrici; la gente cominciò a piangere e a implorare, qualcuno urlava disperatamente “no vietcong, no vietcong”. Infatti, i pochi ribelli presenti nella zona erano già fuggiti, oppure, erano ben nascosti e al sicuro. I soldati, ormai fuori controllo, sparavano a qualsiasi cosa si muovesse, gli abitanti fuggivano in tutte le direzioni in preda alla disperazione, le madri cercavano di coprire e difendere i loro figli sacrificando la propria vita, e, alcune anziane donne, cercavano di difendere con tutta la loro forza e la loro rabbia figlie o nipoti dalle violenze carnali dei soldati americani. Ci volle la lunga e circostanziata lettera di Ron Ridenhou, con nomi e cognomi degli ufficiali e soldati coinvolti, per far aprire l’inchiesta. La sua testimonianza si basava sul racconto minuzioso di compagni d’arme che avevano preso parte all’eccidio.
Incredulità e barbarie
“Tutti gli abitanti del villaggio che scappavano dalla compagnia Charlie – scrive Ron – furono fermati dalle compagnie che circondavano. Ho chiesto più volte a ‘Butch’ se tutte le persone fossero state uccise. Ha detto che pensava che fossero uomini, donne e bambini. Ha ricordato di aver visto un bambino, di circa tre o quattro anni, in piedi sul sentiero con una ferita da arma da fuoco a un braccio. Il ragazzo si stringeva il braccio ferito con l’altra mano, mentre il sangue gli colava tra le dita. Si guardava intorno scioccato e incredulo per quello che vedeva. “Stava semplicemente lì con grandi occhi che si guardavano intorno come se non capisse; non credeva a quello che stava succedendo. Poi l’operatore radio del capitano gli ha sparato addosso una raffica di M16 […] Il plotone non ha lasciato nulla di vivo, né bestiame né persone. […] Dopo aver sentito questo racconto non sono riuscito ad accettarlo. In qualche modo – conclude la lettera – non riuscivo a credere che non solo tanti giovani americani avessero partecipato a un simile atto di barbarie, ma che i loro ufficiali lo avessero ordinato”. My Lai resta tuttora un monito.