Nella storia dei dipendenti di Poste Italiane si ritrova la storia del nostro Paese. In “Ricordi di Poste”, raccogliamo le testimonianze degli ex dipendenti che scrivono alla redazione e che, attraverso i loro racconti, contribuiscono a mantenere vivo il legame tra le generazioni. Qui di seguito, un racconto di Antonio Schiavo, dal titolo “Ricordi che non svaniscono”.
Correva (beato lui!) l’anno di grazia 1983.
Non ho mai odiato così tanto le luminarie di Natale come in quei primi giorni di gennaio. Ero appena arrivato da Ravello piena di colori, fuochi d’artificio per Capodanno, affetti familiari e dolci a una freddissima e piovosa Firenze.
Lì ero stato assegnato come vincitore di un concorso a 200 posti di Consigliere Amministrativo nell’Amministrazione di Poste e Telecomunicazioni.
Dopo un corso di Formazione, essendo tra i più giovani, mi reclutarono nei Servizi Postali.
Allora quella funzione si chiamava “Movimento Postale” a significare che tutto il processo della posta e dei pacchi aveva necessità di energie nuove che ne programmassero e ne controllassero la correttezza e l’efficienza.
Fui affidato, in questo percorso formativo alle “amorevoli” cure del Responsabile toscano Dottor Vittorio Romano, un gigante buono che addolcì molto la pillola di quell’incarico apparentemente così ostico e al Dottor Carlo Piccolo, Ispettore Centrale del Movimento, tra i più esperti e più temuti funzionari della Direzione romana.
Una bella mattina quest’ultimo mi chiama e mi dice, perentorio e distaccato come si conveniva nei confronti di un giovane e timoroso collega: “Domani andiamo a conoscere Lisa!”.
Che strano, me lo avevano descritto come preparato ma burbero e severo e ora mi invitava ad un incontro galante…Valli a capire questi Dirigenti!
Purtroppo per me e per le mie aspettative di giovane ancora non sposato mi aveva fregato un apostrofo.
Sì perché Lisa non era una bella pulzella fiorentina degna di un ritratto di Botticelli ma l’ISA (Impianto di Smistamento Automatico) gioiello della tecnologia, unico in Italia per le lavorazioni meccanizzate della corrispondenza e orgoglio nazionale anche nei confronti delle altre amministrazioni postali europee.
A quei tempi il grosso del processo si svolgeva manualmente affidato a ripartitori abilissimi padroni indiscussi di straordinarie conoscenze geo-politiche, velociraptor nello smistare lettere, stampe, cartoline davanti a grandi casellari che inghiottivano migliaia di pezzi destinati dalle grandi città ai più piccoli borghi del nostro meraviglioso ma complicatissimo (per morfologia e parcellizzazione comunale) Paese.
E qui si innesta la seconda parte di questa storia legata alle prime esperienze in Posta.
Dovete sapere, cari lettori, che la maggior parte del lavoro di arrivi e partenze della corrispondenza e dei pacchi, tranne che appunto in quel “santuario” fiorentino meccanizzato, si svolgeva nei cosiddetti Uffici di Ferrovia, appunto ubicati nei pressi: quando non addirittura all’interno- delle Stazioni Ferroviarie.
Ciò perché la stragrande maggioranza del corriere postale viaggiava su rotaia ad eccezione di parte veicolata con SAN, altro acronimo che non indicava un Santo Protettore dei postini ma più prosaicamente Servizio Aeropostale Notturno per gli ultimi ma determinanti collegamenti rapidi e verso destinazioni non raggiungibili in tempi ragionevoli col treno.
Il fabbisogno di questi Uffici di ferrovia veniva calcolato con un metodo che si traduceva poi nel cosiddetto modello ASS (come assegno).
Pesature, contazioni, coefficienti temporali per singola operazione… un sistema un po’ artigianale ed empirico per determinare quanti operatori fossero necessari per singolo reparto.
Era passato poco più di un anno dalla mia assunzione e l’ineffabile Dottor Piccolo mi reputò degno di occuparmi dell’assegno di Arezzo ferrovia insieme ad un altro “affiliato” al Movimento, quel Carlo De Donato che, un po’ di tempo dopo, si sarebbe inventato il Postacelere con cui le Poste miravano, per la prima volta, ad entrare in concorrenza con i maggiori Corrieri Privati nazionali ed internazionali.
Ci affiancava un gruppo di collaboratori chissà perché chiamati Capolinea.
All’epoca buona parte delle lavorazioni oltre che negli uffici stabili veniva anche svolta all’interno di vetture e bagagliai inseriti nella composizione dei treni locali e interregionali. Veri e propri uffici di smistamento viaggianti con personale addetto romanticamente denominati messaggeri o ambulanti. Questi procedevano più o meno freneticamente a seconda delle distanze che il convoglio ferroviario copriva alle lavorazioni di prima e seconda fase della corrispondenza, degli espressi, allo smistamento dei quotidiani, alla formazione dei dispacci, alla cura minuziosa dei prodotti di valore e assicurati fino allo scambio di tutto il corriere alle varie stazioni.
Praticamente un mondo parallelo a quello dei vari centri di smistamento disseminati nella Penisola.
Tra le “qualità” del nostro Istruttore c’era quella di farci fare contemporaneamente più cose meritando così le nostre affettuose benedizioni soprattutto quando queste cose si dovevano fare nelle ore notturne, il momento migliore per verificare la qualità del processo in essere e per la quantificazione delle lavorazioni occorrenti.
“Dottor Schiavo” (il “lei” era d’obbligo),” lasci la pesatura al capolinea e venga con me sul binario, andiamo a presenziare il “Postale!”.
Il Postale, già…un treno composto esclusivamente da vetture destinate a noi di Poste, un millepiedi su rotaia che attraversava l’Italia i cui operatori smistavamo corrispondenza e pacchi fino a volte al portalettere del comune più sperduto.
Dei geni, indubbiamente a cui Pico della Mirandola avrebbe arricciato un baffo in fatto di memoria!
Nel nostro caso il treno veniva da Milano e sarebbe arrivato ad Arezzo verso le tre e mezza.
Di notte! Un freddo boia, le palpebre che non ne volevano sapere di stare aperte per il sonno. Le mie, però; il Dottor Carlo Piccolo era baldanzoso come un ventenne. Io intabarrato in un piumino bianco che sembravo l’omino Michelin, lui in giacca e cravatta.
Il treno arrivò stranamente puntuale, la carrozza con i messaggeri che dovevano caricare e scaricare la posta, mi sembra fosse al centro.
Ma mica il mio mentore poteva accontentarsi di fare un veloce controllo a quella vettura? No, si precipitò a bussare a quella dove i messaggeri romani, dopo lo scarico a Firenze avevano bellamente approfittato del giaciglio formato dai sacchi di iuta per un meritato sonnellino fino a destinazione.
Uno, due colpi alla saracinesca, nessuna risposta.
Secondo tentativo con colpi meglio assestati e rumorosi… niente.
Nervosismo crescente “Aprite, aprite sono Piccolo!”
Dall’interno una risposta impastata di sonno ma chiaramente irridente: “Aho’ e si sei piccolo perché nun te ne vai a dormì a quest’ora!”
Oggi anche io, secondo gli istituti internazionali di statistica sono da catalogare, avendo superato i 65 anni, tra gli anziani e come diceva Enzo Biagi, a questa età i ricordi prendono il posto dei sogni ma mi piace immaginare che quelle mie, quelle nostre benedizioni abbiano condotto il dottor Carlo Piccolo, napoletano di nascita e fiorentino di adozione nel Paradiso dei Postali dove potrebbe aver raccontato questa storia alla mamma di quel giovane infreddolito e assonnato Dirigente aggiunto del Movimento, impiegata per tanti anni all’Ufficio Locale di Ravello.