Roma, 3 set. – “Meno è meglio”, più basso è il livello di colesterolo cattivo (C-LDL) più bassa è l’incidenza di eventi cerebro-cardiovascolari; a confermare questa relazione, lineare e progressiva, sono gli oltre 200 studi degli ultimi 25 anni. Le nuove linee guida 2019 sulle dislipidemie presentate dalla European Society of Cardiology (Esc) e dalla European Atherosclerosis Society (Eas), durante il Congresso in corso in questi giorni a Parigi, hanno fatto proprio il messaggio “Lower is better”, stabilendo nuovi livelli target di C-LDL da rispettare per i pazienti definiti a rischio cardiovascolare “molto alto” e “alto”, rispettivamente <55 mg/dl e <70 mg/dl.

“Le nuove linee guida sulle dislipidemie, alterazioni della concentrazione di grasso presente nel plasma sanguigno, sono una conferma di quanto evidenziato dagli ultimi studi scientifici: C-LDL è il fattore causale della malattia aterosclerotica e quindi le strategie terapeutiche devono mirare ad abbassarlo il più possibile, secondo il concetto  meno è meglio”, afferma Alberto Zambon, professore associato di Medicina Interna all’Università di Padova.

“Per i pazienti con un rischio cardiovascolare molto alto diventa fondamentale abbattere i livelli di C-LDL in modo significativo per allontanare il rischio di successivi eventi cardiovascolari. I nuovi target individuati di 55mg/dl (per i pazienti a rischio cardiovascolare molto alto) e di 40mg/dl (per i pazienti con un evento vascolare ricorrente entro i due anni nonostante una terapia statinica ottimizzata), testimoniano quanto il controllo tempestivo del colesterolo cattivo, diventi un aspetto imprescindibile nella presa in carico dei pazienti”, spiega Zambon.

Centrare l’obiettivo “meno è meglio” significa applicare protocolli terapeutici efficaci. I dati disponibili sottolineano che, a fronte di queste solide evidenze scientifiche, molti pazienti in prevenzione secondaria seguiti nella pratica clinica purtroppo non raggiungono il target di C-LDL stabilito. Le nuove linee guida inseriscono il trattamento con gli inibitori PCSK9 come evolocumab quale strategia chiave per ridurre in modo significativo il rischio di eventi cerebro-cardiovascolari nei pazienti con una storia di infarto, ictus o arteriopatia periferica.

Questa nuova raccomandazione è in linea con i risultati dello studio Fourier, che ha evidenziato come l’aggiunta di evolocumab alla terapia con statine porti a una riduzione dei livelli di C-LDL di circa il 60%, diminuendo al tempo stesso il rischio di nuovi eventi come infarto, ictus e rivascolarizzazione coronarica. L’impiego degli  inibitori PCSK9, alla luce degli ultimi dati scientifici, evidenzia un’ulteriore necessità rispetto al controllo dei valori C-LDL: non solo “meno è meglio”, ma anche “prima è meglio”.

“Gli inibitori PCSK9 come evolocumab hanno dimostrato da tempo la loro efficacia nei pazienti in prevenzione secondaria”, sottolinea Francesco Prati, Primario di Cardiologia presso l’Azienda Ospedaliera San Giovanni – Addolorata di Roma e Presidente del Centro per la Lotta contro l’Infarto.

“Una conferma ulteriore sull’opportunità di inserire le nuove terapie nei protocolli terapeutici, come indicato nelle nuove linee guida ed in maniera più precoce, arriva dal recente studio indipendente EVOPACS, presentato in questi giorni all’ESC. L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare l’efficacia di evolocumab nei pazienti con sindrome coronarica acuta, quindi nella fase acuta dell’infarto miocardico. I risultati dimostrano per la prima volta che l’impiego del farmaco entro le 96 ore dall’evento è in grado di ridurre del 77.1% i livelli di C-LDL dopo 4 e 8 settimane di trattamento. Nel 90% dei pazienti è stato inoltre raggiunto il nuovo target di C-LDL di 55mg/dl, confermando l’efficacia della terapia. Inoltre, nello studio è stata confermata la sicurezza e tollerabilità di evolocumab anche in questa tipologia di pazienti”, precisa il cardiologo.

“Gli inibitori PCSK9 come evolocumab nell’evento acuto hanno il compito di stabilizzare la placca aterosclerotica, modificandone la composizione, in modo che, nella fase successiva all’infarto, non ci siano ulteriori complicanze. Questo processo deve avvenire il prima possibile in modo da recare il maggiore vantaggio possibile al paziente. Un approccio aggressivo e precoce nella riduzione di C-LDL va accompagnato ad un percorso di presa in carico del paziente strutturato nelle fasi successivi all`infarto, in modo da ottimizzare il beneficio terapeutico”, conclude Prati.