Roma, 19 set – “Non è un mistero per nessuno quello che dovremmo effettivamente fare. Sappiamo, senza ambiguità né controversie, che ci sono quattro cose con cui ogni persona può fare la differenza. E sono: avere meno figli, prendere meno l’aereo, vivere senza automobile e seguire una dieta più vegetariana. Tre di queste cose sono molto difficili, una, la quarta, invece potrebbe essere fatta subito”. Lo ha detto Jonathan Safran Foer, intervistato da askanews all’ultimo Festivaletteratura di Mantova, dove lo scrittore americano ha presentato il suo libro “Possiamo salvare il mondo prima di cena”, edito in Italia da Guanda e dedicato al tema dei cambiamenti climatici. Un saggio che indica nell’allevamento intensivo, e quindi nella nostra alimentazione fortemente incentrata sulla carne, una delle più gravi e taciute cause della crisi climatica.

“Ho avuto un momento – ha raccontato Foer a proposito della genesi del libro – nel quale mi sono detto: quando è troppo è troppo. Me lo ricordo molto bene, ero a casa e ho pensato che dovevo assolutamente fare qualcosa. E non solo sul cambiamento climatico, ma anche su Trump o sul controllo delle armi o sui problemi dell’immigrazione, ma sul clima questa sensazione è stata ancora più forte, pensavo agli incendi in California, alle super tempeste, allo scioglimento dei ghiacci. Bisogna fare qualcosa, mi dicevo, bisogna fare qualcosa. E lo dicevano continuamente anche i miei amici, ce lo ripetevamo ininterrottamente. E a u certo punto mi sono reso conto che era assurdo dirlo e poi non fare nulla”.

A quel punto, per lo scrittore, la cosa più naturale è stata pensare a un nuovo libro, anche se, ha spiegato Foer, all’inizio non era chiaro quale sarebbe stato il risultato finale della ricerca. “Scrivere – ha però sottolineato – è il mio modo migliore per essere serio, per essere attento a qualcosa. Quindi mi sono preso del tempo per prestare attenzione e pensare a questo tema”.

“La gente – ha concluso Jonathan Safran Foer – di solito non fa nulla fino a quando non viene toccata profondamente, e questo è necessario, ma non sufficiente. E il problema è invece che tendiamo a credere che sia sufficiente: se partecipo o a una manifestazione mi dico che ho fatto qualcosa; se piango quando vedo un’immagine dei profughi climatici mi dico che ho fatto qualcosa, ho pianto; se sostengo le posizioni della scienza quel sostegno lo considero fare qualcosa o addirittura se dico che bisogna fare qualcosa anche questo è già fare qualcosa. Ma non è così”.

Per questo il libro ha uno dei suoi pregi maggiori nella non indulgenza, nella consapevolezza che lo stesso narratore è “compromesso”, nel mettere sulla pagina tutte le difficoltà. Ma in queste difficoltà e in questa compromissione, che è la metodologia per escludere ogni forma di integralismo, c’è probabilmente l’unica possibilità di un approccio che abbia un minimo di speranza di successo.

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