Alè. Alla fine arriva sempre il saluto di Giovanni Floris, dopo l’ennesima stagione alla guida di “Dimartedì”, uno dei talk politici di punta del panorama nazionale. La stagione conclusa è stata ovviamente caratterizzata dal coronavirus: non c’è stato il clamore del pubblico, non ci sono stati spalti di appassionati e militanti, perché non c’è più stata la gara. Così sono diventati i suoi martedì nell’era pandemica, il coronavirus è arrivato nell’uomo, nell’economia e nello stesso racconto televisivo: “Solo grazie all’impegno dei cittadini ci salveremo. La tenuta della loro rete è la salvezza, l’impegno degli individui l’energia”.
Anche l’informazione ha dovuto rispondere in qualche modo al monito del premier Conte: «Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa, per il bene dell’Italia?»
“Non so se dobbiamo rinunciare a qualcosa, piuttosto dobbiamo formare nelle nostre teste categorie speciali con cui leggere quello che sta accadendo. L’informazione, ma non solo l’informazione, deve costruirsi occhiali nuovi con cui osservare la crisi in cui il contagio del coronavirus ci sta trascinando, perché le categorie con cui abbiamo raccontato fino ad oggi la politica, l’economia e la società, sono inadeguate e spiazzate da questa “novità”. Penso a chi ha raccontato per esempio gli scenari di guerra, o il terrorismo internazionale, non mi riferisco solo ai corrispondenti, pure ai cosiddetti analisti: parlavano di uomini che si scontravano un contro l’altro, di fazioni, falangi, eserciti, organizzazioni contrapposte, il fronte era chiaro nelle guerre tradizionali, capivi chi sparava a chi, poi è stato meno chiaro con l’arrivo della guerra terroristica. Chi, prima dell’11 settembre, avrebbe pensato mai che due Boeing centrassero le torri di New York in piena mattina? Allora, nel 2001, il concetto di nemico cambiò: poteva stare anche in Occidente, studiare tra di noi per poi colpirci, stravolgendo le nostre pacifiche vite. Oggi siamo stati sorpresi da una nuova temibile specificazione del concetto di nemico: è un virus, invisibile, che può colpire davvero tutti. Quindi ci siamo tutti dovuti armare di nuove categorie di linguaggio e di racconto adeguate a un evento straordinariamente nuovo”.
C’è stata una riscoperta dei media tradizionali o ancor di più vediamo che ci si affida all’informazione – spesso poco verificata – dei social?
“Mi sembra che l’emergenza ci abbia obbligato a confrontare le informazioni che ci arrivano da tutte le parti con la realtà. Facciamo un accurato lavoro di selezione, lo facciamo da soli, in automatico. Le notizie sono troppo importanti per non soppesarle. Tutti noi abbiamo amici, familiari, colleghi che inviano ai gruppi delle varie sigle di messaggistica dubbi, a volte meme sdrammatizzanti, più spesso supposizioni, a volte – ancora molte volte – allarmanti fake news. Però la sete di verità prevale, e così ascoltiamo diverse fonti, controlliamo se una cosa sia vera o meno, e siamo subito in grado di selezionare, lo spavento in questo ci aiuta, quelle che ci sembrano maggiormente autorevoli: diamo retta a scienziati, valutiamo il peso dell’informazione istituzionale… non c’è più lo spazio per farsi un’informazione su misura, a piacimento, e questo è un bene, anche per chi come me fa il giornalista e riscopre l’origine della vocazione di questo mestiere: studiare studiare studiare, chiedere a chi sa, confrontare le varie voci, e alla fine rendere una sintesi precisa a chi ti ascolta o legge”.
L’emergenza è stata anche il racconto di piccoli gesti di coraggio. Nella zona rossa, da Codogno a Vo’, in piena quarantena gli uffici postali hanno riaperto per la consegna delle pensioni grazie a dipendenti volontari: coraggio individuale, senso di una missione o tutti e due?
“L’episodio dell’ufficio postale di Codogno ha colpito tutti, ha colpito molto dunque anche me. Osservo con un po’ d’orgoglio nazionale l’impegno e la missione – in questo caso di Poste Italiane – che hanno messo nel loro operato tutte le categorie in prima linea a fronteggiare l’emergenza virus, a cominciare da medici, infermieri e tutto il settore sanitario, come pure mi colpiscono particolarmente e lo dico da padre più che da giornalista, professoresse e professori, docenti, maestre e maestri che si mettono a disposizione di un tipo d’insegnamento a distanza, che richiama abilità tecnologiche cui non siamo allenati e su cui non abbiamo investito, cioè quelle digitali. C’è chi dice conference-call, come dicesse acqua, pane; ma sono una minoranza nel paese della lenta digitalizzazione, eppure si fanno lezioni persino paradossalmente più sentite, in video-chiamata. In tutte le emergenze le reti diventano fondamentali; tutto quello che resta attivo delle strutture di comunicazione è vitale per tenere unite le persone. In questo va il mio plauso a chi fa rete, e alla postina di Codogno, che immagino abbia colleghi della stessa statura, e tempra morale”.