Sta nascendo, nel tempo della crisi, il postino del terzo millennio. Il Covid ha cambiato le vite, i mestieri, ha cancellato (per ora) alcune professioni, ne ha rimodellate altre. In Italia la pandemia ha trasformato il modo di lavorare dei portalettere, il loro ruolo. Ma tuttavia, anche nel pieno di questo terremoto, i postini sono riusciti a produrre un sorprendente salto evolutivo: si sono dovuti adeguare in corsa a tutte le norme di sicurezza, ma sono diventati – per certi versi anche più di prima – figure di riferimento riconoscibili in tempo di certezze infrante. Da un capo all’altro d’Italia, da una regione all’altra, una mutazione repentina raccontata in tempo reale da giornali e televisioni. Mettendo insieme questo profluvio di testimonianze, è come se un coro di voci, prendendo la parola, ci raccontasse come si vive, “da dentro”, questa nuova condizione.

Un ruolo sociale
Mascia, portalettere abruzzese di Sambuceto, racconta del timore vissuto in famiglia, con un marito che lavora alla cassa in un supermercato. Spiega della profilassi seguita da entrambi con le rispettive uniformi, dopo le giornate a contatto con il pubblico: “Lui – sorride – si spogliava in mutande sul pianerottolo, prima di rientrare in casa. La paura è stata tanta”. Proprio alla luce di questo dettaglio, la testimonianza di Mascia è interessante per capire come le protezioni non sono diventate barriere: “Prima del Covid leggevo le lettere agli anziani, che mi offrivano caffè con biscotti. Purtroppo, tutto questo è finito”. Il legame umano è cambiato però si è rafforzato: “Adesso ci aspettano sul balcone. Ci salutiamo a distanza. Quando arriviamo è una festa”. Anche Claudio, postino di Udine, parla di questo legame: “Chi sta a casa ama fare conversazione. Ne sente il bisogno. E la prima cosa che mi chiedevano, nei giorni del lockdown era: “Come si sta là fuori?””. Anche Jessica di Campodimele ha avuto l’impressione che spesso la corrispondenza aumentasse, perché le persone volevano mantenere un ancoraggio con il mondo: “Ufficialmente – dice – porto pacchi. Ma mi sono resa conto che in fondo portavo la normalità”. Piero, postino di Francavilla: “Abbiamo iniziato a consegnare di tutto: scorte di cioccolata, fiori finti e mattarelli”. Jason, 24enne in servizio a Capodimele, spiega: “A Lenola ho fatto servizio con persone in isolamento che mi chiedevano: “Che si dice? Che succede?”. Così ho capito che non portavo più solo lettere e pacchi. Portavo notizie”. Michele, postino di Acqui, aggiunge: “Ho i numeri di telefono di casa dei nostri clienti. Il contatto tra noi non si è mai interrotto”. Anche per questo motivo ha fatto il giro del web la foto di Rosamaria, mamma e postina placanichese, una dei tanti portalettere, immortalata mentre posava un pacco nel deserto del quartiere: “C’era una signora anziana: mi raccontava dei figli che vivono e lavorano al Nord – racconta – e di lei che viveva sola; così, quando ho capito che aveva bisogno dei suoi farmaci, glieli portavo volentieri”. La famosa cassetta della foto era quella. Una vicenda simile a quella di Mariangela, 40 anni, di Villasmundo, una, frazione di Melilli (Siracusa). Ogni giorno percorre 154 km all’andata e al ritorno per lavorare nella frazione di Zafferia. Una storia di sacrifici quotidiani fatti per non abbandonare chi credeva in lei. Mi ha colpito, in Mariangela, la sincerità con cui non ha nascosto il suo iniziale momento di disagio: “I primi giorni ero terrorizzata e ho preso le ferie – racconta – ho vissuto un trauma superato grazie anche ai colleghi del centro di recapito di Pistunina. Poi, ho capito che con questo virus ci dobbiamo convivere. E che la vita va avanti”. Guido, di Torino, racconta di una battuta che gli ha regalato un anziano: “Caro Guido, io ho fatto la guerra. E ti posso assicurare che era meno noiosa”.