Pochi palazzi raccontano la Storia come questo, con le sue mura spesse, il marmo, l’orologio analogico consumato dal tempo, e questa imponenza che incombe sopra la Piazza Matteotti, questa visione di una grandezza che ci fa ancora più piccoli, noi e il respiro delle pietre, e il rumore del silenzio che si sperde sotto i soffitti alti sette metri. C’è in questa ostentazione persino esagerata non solo la misura del passato, ma anche la forza dei ricordi, tutti i volti della vita che ci parlano, come quello del neonato Beniamino Pinto sdraiato su una barella con gli occhi aperti a guardar la morte e il nostro sgomento. Aveva due mesi il 7 ottobre del 1943, nel pieno del secondo conflitto mondiale, quando la sorellina Editta di 12 anni lo portò qui per trovare da mangiare nel momento in cui le bombe esplosero schiacciando le fondamenta del palazzo. Erano appena finite le quattro giornate di Napoli che avevano cacciato i tedeschi dalla città, e il grande fotografo Robert Capa immortalò quello scempio, fissando, fra le altre, le immagini di Beniamino e di sua sorella Editta, sdraiata sulle rovine e sui cumuli di pietra, a testa in giù, con le braccia aperte come in preghiera, conservate a perenne memoria nella mostra International Center of Photography di New York dedicata al reporter americano.
Dove nascono tecniche avanzate
Oggi fa un certo effetto mettere insieme questi pezzi della memoria e il silenzio ovattato, così denso di futuro, del quarto piano, dove un tempo lavoravano centinaia di addetti al telegrafo e alla posta pneumatica, e adesso, sotto questi soffitti più bassi, ci sono il polo tecnologico che svolge l’Esercizio dei Sistemi Informativi dell’Area Sud e il Settore Sviluppo con le strutture Software Factory e Test Factory. Lo stesso effetto che fa salire dall’ingresso monumentale a questi corridoi stretti, e poi all’open space con 40 giovanissimi attaccati al computer dove si stuida l’applicazione dei risultati su particolari processi aziendali, come ad esempio i servizi di recapito per ottimizzare con tecnica avanzata di georeferenzazione i percorsi dei postini per tutelare meglio la loro sicurezza, suggerendo le strade più agevoli, con meno rischi di traffico, di buche o altri problemi.
Pionieri del secolo scorso
A tornar di nuovo indietro nel tempo, però, si scopre che l’edificio fu concepito proprio per ospitare un servizio complesso, pilota per l’epoca: telegrafo e posta pneumatica. Nel secolo scorso questo palazzo fu un simbolo dell’architettura di qualità funzionalista degli Anni ’30, e ancora oggi è considerato all’estero come la più imponente struttura direzionale delle Poste europee. I lavori cominciarono nel 1933 con la demolizione di parte rilevante del cuore del centro storico e finirono nel 1936. Utilizzarono marmo rarissimo senza badare al risparmio, gonfiando il petto davanti a tanto splendore. L’Istituto Luce lo annunciava con voce stentorea dagli schermi del cinema: “Per il benessere e la sanità del popolo fervono i lavori, mentre il piccone risanatore demolisce i miseri caseggiati del rione Sanità…”. L’opera fu realizzata da due giovani ambiziosi, il progettista Giuseppe Vaccaro e l’esperto in cemento armato Gino Franzi, scelti direttamente da Marcello Piacentini, grande guru dell’architettura del ventennio.
Chi ha lasciato il segno
Su una parete è appeso un elenco delle persone famose che hanno lavorato alle Poste di Napoli: c’è Matilde Serao, che diresse Il Mattino, E. A. Mario, che scrisse la Canzone del Piave, e anche Rodolfo Falco, autore di canzoni napoletane. Ancora il passato che rimane. A lato dell’atrio principale, c’era la sala scrittura con un mosaico alla parete che riportava l’immagine delle colonie dell’Impero.