Quando Postenews, qualche tempo fa, ha contattato Terence Hill per intervistarlo, lo ha colto in un momento decisamente appropriato: “Sto proprio per andare all’Ufficio Postale di Amelia, qui in Umbria dove mi trovo, per spedire un pacco a Milano. Il personale è cordialissimo, gli operatori mi aiutano sempre”. Così, uno degli attori simbolo in Italia – prima per le commedie a fianco di Bud Spencer, poi per l’incredibile successo in tv con Don Matteo – ha risposto alle domande sul suo passato, sui suoi personaggi e sulla fede, lontano dai riflettori.
Mario Girotti, meglio noto come Terence Hill: come nasce questo nome d’arte?
“Erano gli anni Settanta. Quando facevamo gli spaghetti western, e se ne facevano anche centinaia l’anno, tutti dovevano cambiarsi il nome di modo che sembrassero americani. E quando dico tutti, intendo attori, troupe, truccatori e qualunque persona fosse coinvolta sul set. Tornare indietro non si poteva. Perché il distributore all’epoca si raccomandava con i protagonisti delle pellicole di mantenere sempre lo stesso nome. Così sia io che Bud Spencer ce lo siamo tenuto”.
Lei è nato a Venezia.
“Vero. Ma ho vissuto quasi sempre altrove. Per trent’anni sono stato negli States, erano i tempi in cui facevamo i film con Bud Spencer. Poi, quando ho accettato di fare Don Matteo sono rientrato in Italia e ho vissuto tra Roma e l’Umbria. E sono molto felice di questo. A Venezia ho familiari e amici, uno di questi è Pino Donaggio, autore delle musiche di “Don Matteo”, del film “Il mio nome è Thomas” e di altri che avevo girato in precedenza”.
Dopo tanti anni “Don Matteo” ha ancora un successo straordinario. Come se lo spiega?
“Non c’è una spiegazione per un successo del genere. Se ci fosse una ricetta precisa, nessuno farebbe più un flop. Quello che posso dirle, è che c’è una grande passione dietro la produzione di “Don Matteo”. E anche tanto divertimento: credo che il pubblico percepisca tutto ciò”.
Impersona da anni un sacerdote. Nella vita reale è credente?
“Sì. Però la fede è una dimensione personale. Quando recito non lo faccio con l’intenzione di influenzare qualcuno. Mi occupo di intrattenere il pubblico. La mia speranza è di far trascorrere un tempo divertente e leggero davanti alla tv. Quando mi dicono “mi hai fatto stare bene”, quello è il mio premio. Poi se arriva anche un messaggio positivo, tanto meglio. L’unica cosa che mi interessa è fare serie tv o film per tutti, anche per i bambini. Quando ho girato “Trinità”, le mamme e i papà mi fermavano per strada e mi chiedevano di continuare a fare pellicole del genere, senza violenza, “così”, mi dicevano, “possiamo portare i nostri figli al cinema”. A me interessa questo”.
“Trinità” è un classico. Continua a piacere, lo apprezzano anche le nuove generazioni. Come fa un film a essere senza tempo?
“Erano delle favole divertenti. Resistono al tempo perché gli sceneggiatori e i registi sono stati bravi a fare il loro lavoro. Inoltre sono pellicole girate in luoghi avventurosi e insoliti, come la Colombia, il Sud Africa, e questo ha dato anche una certa epicità a quei film, contribuendo al loro successo”.