Quando, come ai giorni nostri, il fanatismo sconfina nella violenza e perfino nel terrorismo, fa bene rispolverare una Lettera che potrebbe essere illustrata piacevolmente da un fumetto tipo Mafalda di Quino. È altrettanto fina e impertinente. L’ha scritta un filosofo del 1700 da un nome un po’ astruso per noi italiani. Breve e inaspettata per l’attualità che sprigiona tuttora, Lettera sul fanatismo è stata scritta da Ashley-Cooper, conte di Shaftesbury. Citato per lo più con il solo nome Shaftesbury. Il fanatismo, altro modo di dire fondamentalismo, integralismo, entusiasmo eccessivo, spinge a vedere e giudicare le cose da un solo punto di vista. Piace a parecchi e viene praticato ogni giorno da tanti che spesso compongono quelle maggioranze silenziose contrarie alla libertà degli altri. Sono intolleranti in ambito civile e in ambito religioso. Facilmente ipocriti perché esigenti verso la moralità altrui e non verso la propria condotta. Non di rado l’intransigenza si accompagna a invidia e rancore. Alla naturale ma diabolica tendenza di limitare gli altri e le loro convinzioni, in tante persone, credenti in un Dio di comodo, si agita la tentazione di dover reprimere con violenza e pene odiose perfino idee ritenute vizi, reati, peccati.

Un manifesto contro la malinconia

Una ricetta ragionevole e di buon senso per contrastare diversamente i cattivi costumi con il sorriso, è contenuta nella Lettera sul fanatismo. Sulle prime può lasciare perplessi. E non soltanto i benpensanti. Se tuttavia venga considerata attentamente, tale ricetta non costa nulla; migliora anzi la qualità della vita e la salute. “Le opinioni più ridicole, le mode più assurde possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve” scrive Shaftesbury. Qualcuno ha definito la Lettera “un manifesto contro la malinconia e l’eccesso di serietà”. Proponendosi di combattere il fanatismo con la presa in giro e il buon umore, la sua ricetta appare l’uovo di Colombo. È il caso di dire: provare per credere. Specialmente oggi che si respira una politica triste che intristisce e scava solchi divisori anziché costruire ponti per unire, uno stile garbato e ironico nella dialettica con gli avversari, faciliterebbe la vita quotidiana. Appare una trovata arguta l’applicare il buon umore come chiave per smontare le intransigenze originate da una religiosità maligna, priva di raziocinio e umanità. Non c’è infatti peggior fanatismo di coloro che, convinti di essere ispirati direttamente da Dio, si sentono autorizzati a usare ogni mezzo per interdire e piegare gli infedeli. Arroganti e dogmatici rendono a Dio un pessimo servizio perché generano miscredenza. Sono la peste corruttiva di ogni fede. Per il cristianesimo in particolare fondato su un Dio Amore una fede fanatica e intransigente è una bestemmia. I religiosi intransigenti sono parenti stretti degli ipocriti bollati da Cristo come “razza di vipere, sepolcri imbiancati” abituati a caricare la gente con pesi insopportabili che loro stessi non smuovono neanche con un dito.

Contro le stravaganze corrucciate

Gli ipocriti sono una contro testimonianza per Dio. Il concilio Vaticano II, magna carta del cattolicesimo per il terzo millennio, ha riconosciuto che perfino l’ateismo si deve in parte alla cattiva testimonianza dei credenti. Occorre ricorrere alla ragione – ricorda Shatesbury – per non identificare l’azione di Dio con i nostri pensieri e la nostra moralità. Dio è più buono di quanto l’uomo sia capace d’immaginare. Non è lo sceriffo del mondo in cerca dei cattivi e non intende avvalersi di autoproclamati sceriffi della moralità. “Sono convinto – ci ricorda Shaftesbury – che l’unico metodo per salvaguardare il buon senso degli uomini e tener desto lo spirito nel mondo, sia lasciarlo libero. Ma lo spirito non è mai libero dove è soppressa la libera ironia; contro le stravaganze corrucciate e contro gli umori malinconici non esiste infatti rimedio migliore di questo”.