Il sassofonista Francesco Cafiso

Dalla Sicilia a New York, passando per il Giappone e l’Australia. Un talento precoce, quello di Francesco Cafiso, siciliano di Vittoria, 31 anni, che ha iniziato a suonare il sax a soli 6 anni e che, già quando ne aveva 9, era in tour con la sua band, composta da musicisti adulti, dirigendola con personalità degna di un artista affermato. Eppure, per scoprire veramente la musica di Francesco Cafiso, è necessario ascoltarla silenziosamente, per lasciarsi stupire dalla sua melodia intensa e sincera. Il suo sassofono contralto è dotato di rara eleganza. Dopo i tanti successi, a dicembre, uscirà il suo nuovo, attesissimo album.

Il 3 dicembre uscirà “Irene of Boston – Conversation avec Corto Maltese”, il tuo nuovo album, registrato con la London Symphony Orchestra. Ci parli di questo lavoro?
“Sono dieci brani originali firmati da me e arrangiati insieme a Mauro Schiavone, che raccontano in una dimensione onirica le vicende del veliero britannico Irene of Boston, costruito nei primi del Novecento e il cui destino, dopo quasi un secolo di viaggi tra i mari del mondo, si conclude nel porto siciliano di Pozzallo. Nella mia immaginazione, i legni e gli ottoni del relitto si trasformano negli strumenti di un’orchestra sinfonica e, attraverso questa metamorfosi, il veliero si risveglia dal lungo sonno per raccontare, grazie alla magia dei suoni, le sue avventure”.

Che tappa segna questo lavoro nella tua carriera?
“È un sogno che si realizza. Non ho fatto altro che seguire il flusso della mia ispirazione e la musica è venuta da sé. È stato un onore tornare a lavorare con la London Symphony Orchestra. Lo avevo già fatto nel 2015 e ne conoscevo il prestigio e la bravura”.

Francesco, come nasce la tua passione per il sassofono?
“Ci fu un segnale premonitore: al momento della nascita, mi venne regalata una spilla a forma di sassofono. Un segnale del destino, forse. Poi mi appassionai al suono di questo strumento, il sassofono contralto. Mio padre me ne regalò uno. E da lì è iniziato tutto”.

Nel 2003 il celebre jazzista Wynton Marsalis ti portò con sé nel suo tour europeo. Avevi solo 14 anni: che tipo di esperienza è stata per te?
“Ancora oggi credo che sia stata l’esperienza più importante della mia vita. Mi ricordo tutto nitidamente. Partii che ero molto piccolo, il mio primo viaggio all’estero, lontano dalla mia Sicilia. Oltre alla bravura di Marsalis, mi colpì molto il suo immenso lato umano”.

Come mai in Italia il jazz viene considerato solo un genere musicale d’élite?
“È vero. E questo mi sembra assurdo. E pensare che il jazz è nato dal basso. Anche grazie all’enorme contributo di bravi musicisti italiani. Oggi però è poco valorizzato dai mass-media e, in parte, anche dalle istituzioni. In Italia mancano le scuole, la formazione sul jazz non è così presente come in altri paesi. Il jazz, comunque, è soprattutto libera espressione delle proprie emozioni e per questo cattura l’attenzione, coinvolge tutti, ricchi e poveri, grandi e piccoli, esperti e profani”.

Ti sarà di certo capitato di ricevere molte lettere dai tuoi ammiratori: ce n’è una che ricordi con maggiore piacere o stupore?
“Tutte le lettere che ricevo da chi mi manifesta il suo apprezzamento, mi colpiscono. Ma la più significativa è forse quella che mi arrivò qualche tempo fa: con grande stupore, vidi che mi era stata scritta da Lee Konitz, uno dei grandi maestri del sax made in Usa e del jazz, il quale mi scriveva che aveva ascoltato un mio brano e ne era rimasto entusiasta. Da lì è iniziata, fra me e lui, una fitta corrispondenza epistolare. L’emozione che suscita lo scrivere di proprio pugno, non ha eguali”.

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