Simone Perrotta, appesi gli scarpini al chiodo, è ancora uno che va di corsa. Sposato, padre di due ragazzi, consigliere dell’AIC e dirigente federale, il campione del mondo 2006 non ha mai smarrito i veri valori della vita. Un uomo di campo e di sport, sempre attento anche alla cultura. Per lui la scuola, gli insegnamenti e l’istruzione sono sempre stati elementi importanti di crescita, come testimonia questa conversazione con il nostro sito.
Simone, sei Responsabile del Dipartimento Junior dell’Assocalciatori, vicepresidente del Settore Giovanile e Scolastico della FIGC ed allenatore dell’Under 16 della Jem’s Soccer Academy, la squadra della tua scuola calcio. Cosa intendi trasmettere ai più giovani?
“Mi sento fortunato per quello che il calcio mi ha dato. Ora mi piacerebbe restituire qualcosa, trasferire la mia esperienza ai più giovani. Veder crescere un atleta mi riempie d’orgoglio. A loro insegno il rispetto, il mettersi in gioco e non mollare mai. E anche saper vincere o perdere, ma sempre traendone il giusto insegnamento”.
Sei stato campione del mondo con la Nazionale in Germania nel 2006. Il massimo traguardo per un calciatore. Ma nella tua professione hai sempre vissuto quei momenti con i piedi per terra, con umiltà.
“Credo che ogni calciatore sia umile. Poi sono le tv, le luci della ribalta, la notorietà, che ti elevano a mito. Qualcosa che però tu non sei e non vuoi essere. Ci sono tanti stereotipi nel calcio, ma i giocatori non sono tutti “miliardari” viziati. Penso alla stragrande maggioranza di loro, quelli che formano la base: i giocatori di Lega Pro e di tutte le categorie inferiori, ad esempio, che guadagnano spesso meno di mille euro al mese e che hanno le stesse difficoltà economiche di tutti gli altri lavoratori”.
Una volta terminata l’attività agonistica, come è stato tornare ad una vita più “normale”?
“Per me è stato meno traumatico. Perché ho deciso io quando smettere e come farlo. Questo è un passaggio della propria vita che, comunque, bisogna preparare per tempo. Soprattutto da un punto di vista psicologico. Altrimenti può essere un trauma”.
Oggi insegni ai più giovani i segreti del calcio e i comportamenti da tenere: quali caratteristiche ha questa nuova generazione?
“I ragazzi mi vedono come un punto di riferimento. Seguono tutto ciò che dico con disciplina e rispetto. Questo aumenta le mie responsabilità. Per loro cerco sempre di essere come una sorta di secondo padre”.
Il calcio è sinonimo di abbracci, aggregazione. Tutto quello che oggi ci viene negato da questo terribile virus. Una situazione paradossale, come la stai vivendo?
“Non vorrei che subentrasse la rassegnazione. Lo vedo anche con i miei ragazzi: per loro adesso non socializzare, non abbracciarsi più con l’enfasi di prima, è diventato quasi normale. Manca il contatto, mi manca non poter abbracciare un mio giovane calciatore per dargli coraggio e affetto. Spero torneremo presto alla normalità”.
C’è una lettera, scritta o ricevuta, alla quale sei particolarmente affezionato?
“Vi faccio fare due risate: sapete che la lettera più significativa è una che, in realtà, non ho mai ricevuto? Quella nella quale mi veniva comunicato che avevano costruito una statua in mio onore, ad Ashton-Under-Lyne, in Inghilterra, nel paese dove avevo iniziato a tirare i primi calci quando ero bambino. Una lettera che, mi dissero, mi era stata spedita dall’Inghilterra, ma che probabilmente non è mai partita da oltremanica oppure sono stati scritti in maniera errata nome e indirizzo”.