C’è una Lettera scarna e austera, dalle origini un po’ misteriose, smarrita nel tempo, ritrovata dopo secoli. Si tratta di Lettera a Diogneto, nota agli studiosi e divenuta, dopo il concilio Vaticano II, un testo di resistenza all’offensiva dell’integralismo cattolico. Era in gioco il modo di vivere la fede cristiana senza ridurla a una lista di precetti e divieti da museo delle antichità superflue. Il concilio Vaticano II vagheggiava cattolici come “quelli del Samaritano”, la parabola del Vangelo, carta d’identità dei cristiani che soccorrono chiunque sia povero, ferito, straniero. Gente per la quale credere è sinonimo di vivere per gli altri. Lo stesso concilio spiegando ai laici lo stile nuovo di vivere la fede nella città secolare, in alcuni suoi maggiori documenti citava Lettera a Diogneto, scritta da un anonimo nel II secolo dopo Cristo, vicina al tempo apostolico. Compito nuovo dei battezzati è vivere nel mondo non più separati o aggressivi, ma al modo del lievito nella pasta.
Meno di 300 righe
Una disposizione d’animo essenziale delle prime comunità cristiane immerse nel mondo pagano, andata perduta nel tempo con l’affermarsi della cristianità, espressione di confusa mescolanza tra trono e altare. L’imperativo del concilio di tornare alla distinzione poneva la premessa per una nuova stagione educativa alla fede. Ancora oggi Lettera a Diogneto è un alleato importante per educare il popolo di Dio. In dodici brevi capitoli sul come essere e vivere da cristiani, mantiene un suo fascino e genera risorse spirituali. È forse la sobria capacità nell’esprimere la fede che spinge gli studiosi a tornare spesso su quest’opera, per svelarne il suo segreto fascino. Il volto e il nome del suo autore restano sconosciuti come Zorro. Forse un giorno non lontano potrebbe divenire lettura di base per i ragazzi della Prima Comunione, o come memo per chiunque da adulto provasse qualche nostalgia della fede cristiana poco praticata e forse dimenticata. In meno di 300 righe e 12 asciutti capitoletti centra l’essenza del cristianesimo. Eccone qualche riga a dimostrazione della sua validità per un rapido esame di confronto personale con la vicinanza o la lontananza dell’essere cristiani. “I cristiani – si legge nella parte centrale della breve Lettera – né per regione, né per lingua, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. I cristiani amano coloro che li odiano. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, lo inviò per la tirannide, il timore e la prostrazione? No certo. Ma nella mitezza e nella bontà come un re manda suo figlio, lo inviò come Dio e come uomo per gli uomini; lo mandò come chi salva, per persuadere, non per far violenza. A Dio non si addice la violenza”. Il Padre mandò Gesù “per chiamare non per perseguitare; lo mandò per amore non per giudicare”.