A lungo corrispondente da New York, Maurizio Molinari è stato poi direttore della Stampa e dal 23 aprile 2020 dirige la Repubblica. In questa conversazione con Postenews parla delle nuove frontiere dell’informazione digitale e di ciò che ci ha insegnato la stagione della pandemia.
Direttore, il lungo lockdown ha dato un’ulteriore spallata all’abitudine di consumare i giornali cartacei. Molte edicole non hanno più riaperto. A che punto è la trasformazione digitale della prima impresa editoriale italiana, Gedi? E con che parametri si misurano i progressi?
“La trasformazione digitale di Gedi ha ritmi che mettono a durissima prova la nostra capacità di creare, inventare, generare. Perché questo? Perché ogni giorno noi tentiamo di armonizzare la qualità dei nostri contenuti intellettuali con un mercato in costante trasformazione”.
Come lo fate?
“Abbiamo riorganizzato il lavoro in redazione, facendo nostra l’impostazione del “digital first”, ovvero: dalle 8 del mattino alle 23 l’intera redazione si alterna in due turni separati di lavoro producendo contenuti che sono innanzitutto per le piattaforme digitali e poi anche per i giornali cartacei. Questo significa che il giornale viene pensato innanzitutto per i contenuti digitali e il meglio di questi contenuti digitali viene posizionato sulla carta. E questo si fa progettando ogni giorno il nostro lavoro su più piattaforme”.
Quali sono le piattaforme?
“La piattaforma digitale scritta, cioè il sito; la piattaforma audio, cioè i podcast; la piattaforma video; i diversi social network: Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, Clubhouse; e poi naturalmente i prodotti cartacei. Su ognuna di queste piattaforme la declinazione del prodotto richiede una tipologia di lavoro diversa. Non solo, ma lavorare contemporaneamente su più piattaforme porta anche alla genesi di nuovi prodotti. Ad esempio, da quando ho avuto il privilegio di guidare questo giornale noi abbiamo creato i long form, uno alla settimana, che sono dei grandi testi digitali scritti che comprendono immagini, video e ricostruzioni grafiche. Ovvero, c’è un’unica lettura di una molteplicità di prodotti. Un’altra tipologia di prodotto che abbiamo creato da zero è il format “10 minuti”, che sostanzialmente è un video-reportage. Ad esempio, quello che abbiamo realizzato sull’incidente occorso ad Alex Zanardi ha richiesto dieci giorni di lavoro. Si trattava di ricostruire con esattezza ciò che è avvenuto grazie un mix di buon giornalismo vecchio stile e nuove professionalità: dal videomaker in grado di riprendere due auto che si incrociano all’operatore dei droni capace di fotografare la scena dall’alto, all’audio che raccoglie le voci di tutti i testimoni. Questo per dire che la lavorazione dei prodotti digitali porta a sommare vecchio giornalismo e nuove tecnologie. Tutto questo trasforma Repubblica nella più grande start up editoriale del nostro Paese e Gedi in un gruppo che vede nella sua start up il maggiore traino di crescita”.
Tutto questo come si sostiene?
“Si sostiene con le subscriptions. Come il giornale in carta ha bisogno di vendere per sopravvivere, così un gruppo che ha nei contenuti digitali la sua essenza ha bisogno di abbonamenti”.
Durante la pandemia gli abbonamenti sono aumentati.
“Non c’è dubbio che Repubblica – come altri giornali digitali – ha conosciuto durante la pandemia un incremento significativo degli abbonamenti. Credo che in quel periodo l’Italia, nel confronto con gli altri Paesi, abbia fatto un passo in avanti di due o tre anni. Abbiamo raggiunto gli standard di paesi come Svizzera, Svezia o Francia. Ma questo non basta: abbiamo bisogno di più abbonamenti, più partecipazione. Certo, sul nostro sito ci saranno sia informazioni a pagamento sia informazioni gratuite. Queste ultime sono quelle del vecchio giornale generalista, mentre le informazioni a pagamento sono quelle di maggiore qualità, che richiedono più lavoro e più approfondimento. Occorre pagare l’informazione perché un’informazione è libera quando è finanziariamente indipendente. Questo valeva per i giornali in carta e questo vale oggi nella transizione digitale”.
Alcuni dicono che il giornalismo digitale è un giornalismo “povero”, che costa meno perché rinuncia all’approfondimento, ai grandi reportage, alle inchieste e alle investigazioni. Davvero nel passaggio al digitale la qualità del giornalismo è cambiata in peggio?
“Assolutamente no, questa è una percezione sbagliata, un pregiudizio infondato. È vero caso mai il contrario: il giornalismo digitale si nutre di qualità. Ha due identità di fondo: la prima è quella generalista, che – come dicevo – porta a pubblicare sul sito news gratuite, la seconda è l’approfondimento, che viene proposto a pagamento. Ma la capacità di creare nuovi prodotti su nuove piattaforme – come una stanza su Clubhouse o ciò che produciamo per Facebook – richiede investimenti tecnologici, molto lavoro e altrettanta sperimentazione. Il risultato è una qualità molto alta. Porto come esempio la nostra nuova app, che si chiama “R” e che offre quattro percorsi paralleli: la consultazione del sito, la selezione delle 8-10 notizie del giorno, l’edicola – con tutti i prodotti cartacei in formato digitale, comprese le nostre 9 edizioni locali – e infine i podcast, che per noi sono la parte più innovativa e impegnativa. Repubblica ha inaugurato, attraverso la app, un palinsesto di podcast a cui abbiamo lavorato per un anno e che ora è il più ricco e vivace del mercato editoriale italiano. C’è un podcast del mattino – “La giornata”, curata da Laura Pertici – con tutte le notizie della prima pagina di Repubblica. C’è un secondo podcast quotidiano – “Metropolis”, curato da Gerardo Greco – che è l’inchiesta del giorno, l’approfondimento. Poi ci sono le nostre firme più importanti che propongono i loro podcast, uno ciascuno ogni settimana; ci sono le “storie”, come quella, straordinaria, che Concetto Vecchio ha dedicato alla giovinezza di Emanuele Macaluso e all’accusa di adulterio che lo portò agli arresti; e infine ci sono i long form che anch’essi diventano podcast. è un’offerta molto ambiziosa, che ho riassunto per dare un’idea della mole di lavoro e degli investimenti che stanno dietro l’informazione digitale”.
La sostenibilità è il criterio con cui si giudicano le attività di impresa. Ci sono caratteristiche specifiche per un’industria editoriale sostenibile?
“Assolutamente sì, questa è una delle nostre priorità. Una delle nuove piattaforme digitali che abbiamo creato sono i content hub, canali verticali su cui si trovano informazioni specifiche su determinati argomenti. Uno degli hub è proprio sul tema della sostenibilità. Su chiama Green and Blue, è affidato alla cura di Fabio Bogo e ospita notizie su ambiente ed energie rinnovabili. è l’hub che attira più pubblicità. Abbiamo una pubblicazione in carta che accompagna il canale verticale e anche in questo caso si registra un grande apprezzamento da parte degli inserzionisti e dei lettori. I giovani, in particolare, sono molto attenti a questi temi, che – ricordo – sono centrali nella prospettiva del Next Generation Ue”.
La pandemia è stata uno stress-test per l’efficienza e la resilienza del sistema Paese. Secondo lei l’Italia come ne è uscita?
“È stato un attacco a sorpresa, un attacco traumatico. Non lo aspettavamo. Ci è costato 130 mila morti, un costo umano senza precedenti dopo la prima guerra mondiale, un costo economico agghiacciante per milioni di famiglie. La realtà è che di fronte a questa prova così drammatica l’Italia – intesa come sistema Paese – ha tenuto. Ha tenuto da una parte grazie alla grande capacità di resilienza e adattabilità che la società italiana ha in sé, dall’altra perché, come accade nei momenti di crisi, abbiamo trovato in noi stessi e nel nostro sistema familiare le risorse che ci hanno consentito di superare le difficoltà. Tutto ciò è potuto accadere anche perché le tecnologie sono venute in soccorso. Chiusi in casa, gli italiani hanno consumato due tipologie di beni: il cibo e le notizie, un po’ come accadeva durante la guerra. C’è stato un maggiore accesso all’informazione digitale e un’accelerazione del suo sviluppo, a cominciare dall’accresciuta confidenza con i sistemi di pagamento elettronici. Anche sotto questo aspetto, durante la pandemia abbiamo fatto significativi passi avanti in direzione della modernizzazione delle nostre abitudini e delle nostre reti”.
E a proposito di reti, cosa pensa del fatto che Poste Italiane, che è la più grande azienda italiana di servizi, abbia saputo ritagliarsi un ruolo importante sia nella fase dei lockdown sia in quella della campagna vaccinale?
“Abbiamo avuto ospite qui a Repubblica il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, il generale Figliuolo, ed è stato lui stesso a fare riferimento al ruolo di Poste nella logistica della campagna vaccinale. Io penso sia stato importante avere un militare alla guida di questa missione così particolare, perché si trattava di armonizzare tutte quelle strutture sul territorio che, come Poste, per vocazione, identità e capacità sono in grado di rapportarsi e raggiungere i singoli cittadini. Ho vissuto per 13 anni negli Stati Uniti, lì ho imparato quanto i postmen siano importanti. Il postino è la persona che ti raggiunge ovunque ed è un collegamento tra la comunità nazionale e lo Stato con le sue istituzioni. è un segno di vita e di vitalità. è sotto gli occhi di tutti quanto in questa pandemia le Poste siano state un tassello importante per la tenuta del sistema Paese”.