Testimonianze di diversità: parlano le sportelliste dei servizi in più lingue di Poste Italiane, dall’ucraina Alina a Valentina, perfettamente inserita nella comunità cinese di Prato

Se andate a Prato e provate ad avvicinarvi all’Ufficio Postale numero 4, fin dalla porta di ingresso trovate scritte in italiano e in cinese. Se vi ci avvicinate il giorno del Capodanno cinese, potete osservare le lanterne rosse e gli striscioni policromi appesi alle porte al soffitto. Se entrate e chiedete: “Posso fare un telegramma?” potreste sentire i commessi che commentano, con un po’ di sorpresa: “C’è un cliente italiano”. Questo perché in quell’ufficio, come vedremo a breve, il cliente italiano è l’eccezione, non la norma.

La rete degli Uffici multilingue

In Italia ce ne sono già ventinove: sono gli uffici multilingue che Poste ha aperto nelle principali città italiane per accogliere un pubblico fatto prevalentemente di cittadini stranieri che vivono e lavorano nel nostro paese. I dati Istat in Italia ci dicono che oggi ci sono 5 milioni e 234 mila stranieri in Italia, e che sono l’8,7% della popolazione totale. Così, se entri in quell’Ufficio di Prato, puoi trovare il sorriso di Valentina: è italiana, molto giovane, ma ha già dieci anni di anzianità in Azienda. Valentina è una delle prime figlie di questa esperienza “di frontiera” in Poste, assunta come “parlante cinese” nel capoluogo toscano. Quando ti racconta la vita di tutti i giorni, la spiega così: “Non c’è dubbio. Nel nostro Ufficio si parla più mandarino che italiano. Anche chi nel personale non aveva queste specifiche competenze linguistiche – aggiunge – oggi sta imparando il frasario minimo”. Il fatto è che appena ha aperto i battenti, l’Ufficio ha scoperto di dover rispondere ad una domanda di servizi superiore alle attese, e – ovviamente – tutta in lingua straniera: “A Prato ci sono tanti clienti che sono da tanto tempo in Italia – aggiunge Valentina – ma che non parlano una parola della nostra lingua. Non ho idea di come facessero prima che inaugurassimo il nostro servizio”. A questi clienti, emigranti a tutti gli effetti, spiega, “si aggiungono molti ragazzi di seconda generazione, che parlano anche toscano. Per questo tutte le nostre diciture sono in doppia lingua, dalla segnaletica di attesa alla scritta che segnala la porta scorrevole. In una zona commerciale come la nostra è normale che ogni giorno dal nostro Ufficio partano centinaia di bonifici verso le aziende cinesi. Che si versino centinaia di assegni per le più svariate attività di impresa. Che si paghino caparre e stipendi”.

L’esperienza di Valentina

La carriera di Valentina è esemplare. Si è laureata in lingue, con specializzazione in mandarino, ha vissuto poco meno di un anno in Cina. “Poi – racconta ancora stupita – ho fatto il mio primo colloquio con Poste e sono stata assunta. Subito”. Ecco la tempistica da record, che la accomuna a tanti che hanno provato l’esperienza dell’ufficio multilingue: “Sono tornata dalla Cina a luglio. Ad agosto ho fatto il colloquio. A settembre ho iniziato a lavorare allo sportello”. Tre mesi di assunzione in prova, poi subito contratto a tempo indeterminato. Valentina ha costruito intorno a Prato 4 una sua scelta di vita e ha comprato una casa in città. Viene da Imperia, ha studiato all’università di Torino e dice: “Non mi aspettavo un percorso così veloce”. La sua esperienza in Cina, poi, la ricorda come bellissima: “I cinesi sono molto svegli, molto educati, ti aiutano per qualsiasi cosa”. A Pechino anche la diversità antropologica diventava importante: “Io ho i capelli ricci e in quei giorni, per le strade della città, venivo fermata di continuo con queste richieste: “Posso toccarli? Posso fare una fotografia?”“. E ride. Valentina ricorda i primi tempi della pandemia, vissuti con le polemiche sui cinesi e il virus. “Io – sorride – non ho mai avuto una volta paura di tutto quello che si raccontava. Anzi, proprio l’ufficio postale ci ha dato la misura di come la stavano vivendo loro. Hanno affrontato quella fase con misure di autoregolamentazione di tipo cinese, molto più stringenti delle nostre. Si sono barricati in casa. Hanno chiuso qualsiasi attività si potesse sospendere. Se guardi le statistiche – sorride Valentina – Prato è stata una delle città che in quel primo anno ha avuto il minor numero di casi”.

Un luogo di inclusione sociale

Questi racconti spiegano meglio di mille documenti l’idea originale del progetto; quello dell’Ufficio Postale multilingue come un luogo di inclusione sociale, dove il normale servizio si fonde con l’accoglienza, con l’integrazione, con la prossimità. Gli sportelli multietnici sono stati sperimentati per la prima volta a Roma nell’ufficio di via Marsala, a fianco della stazione Termini, vero e proprio luogo del “melting pot” capitolino, nel quartiere con la più alta percentuale di stranieri della città. Dopo il successo quasi sorprendente di questa sperimentazione, gli uffici di nuova generazione sono diventati “un format” e si sono estesi a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale, e molto velocemente, in tutte le città dove le comunità straniere sono più numerose e radicate: a Milano, a Napoli, a Torino, a Firenze, a Palermo, a Genova, a Padova, a Bari, a Caserta, a Foggia, anche a Lecce, Modena, Mazara del Vallo e Vittoria. In ognuna di queste località gli uffici si sono adattati come guanti ai bisogni delle comunità, alle loro richieste, alle culture e alle identità che hanno intercettato sul campo.

Alina, una “straniera” con l’accento napoletano

Ecco perché sempre più spesso sono dei cittadini stranieri (o di origine straniera) a diventare protagonisti della loro esperienza lavorativa. Se vai a Napoli 83, ad esempio, puoi incontrare una dipendente che rappresenta perfettamente questa nuova generazione di dipendenti di Poste. Si chiama Alina, è nata in Ucraina, nella città di Shepetivka: “Mio padre è russo, mio nonno è polacco, mia mamma è ucraina. Sono figlia di un incrocio di culture di mezza Europa”. Alina vive un momento particolare, a causa dell’attacco russo al suo Paese: “In queste settimane è stata molto forte la vicinanza dei miei colleghi e della direttrice di filiale, che ha aiutato a raccogliere viveri e abiti per i miei connazionali. Tutti speriamo nella pace”. Alina è in Italia fin dalle scuole superiori, quando ha seguito sua madre che veniva a lavorare nel nostro Paese. Ed anche lei ricorda stupita la velocità con cui è stata assunta: “Mi sono registrata sul sito di Poste rispondendo, senza troppe aspettative, ad un bando generico: non era precisato che cercavano personale per il lavoro dell’ufficio multietnico…”. Poi sorride: “Ho fatto domanda e dopo una sola settimana mi hanno chiamata. Non ci volevo credere, avevo ventuno anni”. Anche per lei la stessa trafila di Valentina: “Tre mesi di affiancamento, che sono volati. E poi mi hanno richiamato per assumermi a tempo indeterminato”. Adesso le sembra passato un secolo: “Sono da dieci anni in Italia, giovane dipendente di Poste e giovane mamma di una bimba di quattro anni. Quando si dice che l’ufficio diventa la tua seconda casa nel mio caso non si esagera. Anche mio marito – e le viene ancora da sorridere – l’ho trovato qui, in filiale”. Alina parla ucraino, russo, italiano e inglese. Ma poi aggiunge che riesce ad arrangiarsi anche in tutte le altre lingue perché nel suo ufficio di Napoli non ci sono confini: “Ogni giorno lavoriamo con cingalesi, indiani, africani francofoni, cittadini dell’est Europa”. Il motivo di questa enorme varietà è molto semplice: l’ufficio si è specializzato – come gli altri – sui permessi di soggiorno e offre un supporto prezioso a tutti coloro che hanno questa esigenza vitale. “Il mio lavoro – aggiunge Alina – è diventato uno strumento di autoriflessione: oggi aiuto altri che magari si trovano nella situazione in cui mi sono trovata io, all’inizio del loro viaggio. Questo è molto gratificante per me”. Alina divide il lavoro di un anno in quelle che chiama “Giornate arcobaleno”. I giorni delle pensioni, i giorni del green pass e della pandemia, i giorni dei permessi. “Sono cambiata e cresciuta. Adesso la cosa che più mi spiazza è quando gli stranieri mi prendono per una napoletana”. Non è solo una questione di accenti: “Mi rendo conto di come lavorare a Poste ti metta immediatamente dentro la vita delle persone, dentro i loro problemi e le loro speranze. Ho aderito a tanti modelli culturali senza nemmeno accorgermene”. E se le chiedo di farmi un esempio mi spiazza: “Vedi, io sono ortodossa, ma credo a San Gennaro. Nella religione cattolica ci sono più santi e più feste, ma poi tante differenze non le trovo”.

Le sfide di Amina

A Palermo si chiude il nostro piccolo viaggio. Nell’ufficio della stazione, infatti, lavora Amina, altra dipendente con una storia personale che è già un racconto di questa nuova realtà: nasce a Corleone, da genitori marocchini. Suo padre è un venditore ambulante, sua madre una casalinga, ha otto fratelli. Sta studiando tutt’altro, biologia applicata, quando risponde ad un bando di Poste attratta dal fatto che viene richiesta la conoscenza della lingua araba. Anche lei, come le altre colleghe che abbiamo già raccontato, resta stupita dalla velocità con cui entra in azienda. Oggi sorride: “Come forse saprai, oltre all’arabo classico ci sono tante varianti, almeno una per ogni diverso paese dell’Africa settentrionale. Io conoscevo il classico e ovviamente quella parlata dalla mia famiglia. Ed è stato come se iniziando a lavorare con Poste avessi iniziato un corso intensivo simultaneo in tutte le altre”. La difficoltà è aumentata da altri fattori. “Nella nostra zona ci sono molti clienti che fanno lavori umilissimi, da tanti anni, totalmente analfabeti. E che quindi hanno bisogno di una grande assistenza, a partire dalla modulistica”. E ancora: “Questo procedimento di apprendimento a tratti diventa esaltante, perché ti sembra di poter imparare tutto, e a grande velocità, ma se diventi troppo sicura puoi fare anche delle gaffe clamorose”. Ad esempio, questa: “Un giorno, pensando di mettere a suo agio un cliente a cui avevamo appena risolto un problema mi viene naturale fargli un complimento partendo da una formula rituale che viene dall’arabo marocchino ed è presente anche in altre varianti. In italiano suona come: “Ateclaesia”. Nella lingua da cui partivo significa letteralmente “Che Dio ti faccia un regalo!”“. Tuttavia, l’effetto non è stato quello desiderato: “Vedo che si irrigidisce e che si arrabbia e poi per fortuna chiariamo l’equivoco: nella variante che parlava lui il significato era esattamente l’opposto, era una imprecazione”. Capita, ma ci si corregge con altrettanta rapidità, e si impara. Alina abita a Misimeri, a 35 minuti di strada in macchina. Quando ha iniziato, racconta, non sapeva neanche strisciare un bollettino: “Ho imparato tutto grazie ai miei colleghi che mi hanno fatto scuola, dal problema di dettaglio al senso del nostro lavoro. Ho un direttore straordinario che si occupa di tutto”. Aggiunge: “Lavorando a Poste in questo ufficio mi si è aperto un mondo, anzi più di uno”. Ad Amina piace molto il lavoro alle Poste, al punto che oggi si chiede cosa altro mai potrebbe fare nella vita: “Ogni giorno in questo ufficio è una sfida”. In questo paese che cambia ogni giorno, in questa azienda che cambia in ogni ora, se i sociologi di domani vorranno cercare il dna della nuova identità italiana, dovranno andare a studiare questi uffici di frontiera. Al confine tra identità e tra mondi, sulla linea mobilissima che separa il presente dal futuro.