Domenico Iannacone ha raccontato nei suoi documentari le realtà ai margini della città, gli invisibili, gli emarginati, gli ultimi. Ha incontrato chi vive in luoghi spesso abbandonati, nelle periferie spesso tormentate delle nostre città. Nel suo viaggio a Scampia, il giornalista di “Che ci faccio qui” ha fatto un tratto di strada insieme a Franco, da oltre 30 anni portalettere della zona perfettamente integrato nel dissestato tessuto sociale delle Vele.
Domenico, che ricordo hai di quell’incontro?
“Mi piaceva molto il suo modo di interagire con le persone in quel luogo dove non esistevano numeri civici, citofoni e cassette per le lettere. Franco conosceva uno per uno tutti quelli che abitavano nelle vele e il suo passaggio era un richiamo generale, come quando nei paesi una volta passavano i venditori di frutta. Anche a telecamere spente, la gente ci raccontava che quando Franco sarebbe andato in pensione il quartiere avrebbe perso un punto di riferimento. In quei luoghi le persone si fidano soltanto di chi conoscono bene e immagino che chi ha preso il posto di Franco avrà avuto un bel lavoro da fare”.
Ti aspettavi che il portalettere potesse avere questo riconoscimento sociale a Scampia?
“La sua presenza ridava un ruolo a un mestiere che inevitabilmente ha perso intimità. A Scampia, raccomandate e lettere sono spesso comunicazioni dell’umanità. Arrivano tantissime lettere dal carcere e il postino ha un ruolo centrale come tramite di questa umanità. Nel centro di smistamento di Secondigliano ho visto pacchi di lettere provenienti dal carcere che venivano catalogate non per numero ma per il colore della vela. Quel servizio mi ha fatto molto riflettere sul ruolo dei portalettere nei luoghi defilati, piccoli, sperduti del nostro Paese: nei piccoli comuni i postini entrano fisicamente nelle case, sono persone in carne e ossa che creano relazioni umane. Nei piccoli centri la posta non è soltanto un rito, è anche una necessità che chi abita in città dà per scontata. Attraverso gli occhi del portalettere si possono trarre importanti spunti sociologici, perché – come il medico del paese – entra nelle case e conosce i bisogni della gente. Già questo è un atto di apertura di intimità delle persone e poi c’è l’idea quasi romantica della posta e delle lettere che forse un domani diventeranno come i vinili”.
Tu abiti a Torella del Sannio, in provincia di Campobasso. Che esperienza hai di Poste
“Il nostro è un paese di 720 anime e noi ci ripetiamo sempre che per fortuna abbiamo la farmacia, la stazione dei carabinieri e l’ufficio postale, che hanno un ruolo molto importante nell’autoalimentare l’economia. E poi c’è la nostalgia dei vecchi tempi, ricordo l’odore dei timbri che stavano sul bancone dell’ufficio postale, era un odore particolarissimo in un tempo in cui l’ufficio postale aveva un ruolo centrale anche per l’economia e il postino era anche depositario dei segreti di noi ragazzi”.
Qual è l’ultima sorpresa che hai ricevuto per posta
“Recentemente, mia figlia di 17 anni mi ha mandato delle cartoline degli Stati Uniti procurandomi un piccolo tuffo al cuore. È stato un bell’atto d’amore”.