In Italia la natalità è al minimo storico con i nuovi nati scesi nel 2022 sotto la soglia dei 400mila, per la prima volta dall’unità d’Italia. “Il nostro sistema non consente di conciliare vita personale e lavoro”, afferma Gian Carlo Blangiardo, ex presidente dell’Istat. Dal Festival dell’Economia di Trento dello scorso maggio Blangiardo fissa alcuni obiettivi per invertire la tendenza: “Arrivare a mezzo milione di nuovi nati” e “fare in modo che ci siano le condizioni affinché le donne in età relativamente giovane abbiano possibilità di fare figli”. È qui che entrano in gioco le grandi aziende, come Poste Italiane: “Non c’è più solo lo Stato, che fa la sua parte e deve fare la sua parte. Anche il mondo imprenditoriale, pubblico e privato, può avere un ruolo partecipe”.
In Italia la natalità è al minimo storico. Cosa ci aspetta in futuro?
“Gli ultimi dati disponibili ci dicono che nel 2022 ci sono stati 393mila nati, il valore più basso di sempre, sotto la soglia delle 400mila nascite che per un Paese di 60 milioni di abitanti è un segnale importante. I dati del primo trimestre del 2023, rispetto al primo trimestre 2022, segnano ancora lo 0,7% di variazione negativa e ciò fa pensare che il 2023 finirà ancora peggio del 2022. Dal 2014 abbiamo perso circa un milione e mezzo di residenti, nonostante il contributo positivo del saldo immigratorio. Se andiamo a vedere gli scenari per il futuro, per i prossimi 30-40 anni, secondo Istat, i 58 milioni e 800 mila residenti di oggi scenderanno a 47 milioni e 800 mila, avremo cioè circa 11 milioni di abitanti in meno, per lo più persi nella fascia di età che va dai 20 ai 65 anni, ovvero la forza lavoro, il potenziale produttivo del Paese. La conseguenza è che i bisogni e le esigenze di welfare accrescono a causa del processo di invecchiamento. Prendiamo la popolazione molto anziana: oggi abbiamo 820mila persone che hanno più di 90 anni e 22mila di queste hanno più di 100 anni. Nel 2070 avremo due milioni e 200mila persone con almeno 90 anni e, di queste, 145mila avranno più di 100 anni. È evidente che non è solo una questione di pensioni, ma anche di costi del sistema sanitario per garantire qualità di vita a questa mole di anziani”.
Qual è la situazione in Europa e come si posiziona l’Italia rispetto agli altri Paesi?
“L’Europa invecchia: la denatalità è un fenomeno che accomuna tutto il continente; non c’è un solo Paese che raggiunga la media di due figli per donna, valore che garantirebbe il ricambio generazionale. Il Paese che va meglio è la Francia, dove il valore di fecondità è intorno all’1,8 figli per donna, mentre tutti gli altri sono sotto questa soglia. La nostra posizione in termini relativi, rispetto al numero medio di figli per donna, nell’Unione europea, è al terzultimo posto: peggio di noi ci sono solo Spagna e Malta. Lo scenario complessivo dei 27 Paesi, laddove si va a vedere l’evoluzione negli ultimi 15-20 anni del numero medio di figli per donna, è una cascata di curve che scendono con qualche eccezione: nonostante l’andamento decrescente sia normale in tutta Europa, recentemente alcuni Paesi sono riusciti ad arrestare la caduta, cosa che noi non siamo stati capaci di fare”.
Quali sono le cause di questo crollo demografico?
“Sullo sfondo c’è un elemento strutturale, le mamme che nel futuro mancheranno sempre più. Questo è un elemento importante: oggi abbiamo 12 milioni di donne in età feconda, nel 2070 ne avremo 8 milioni, cioè un terzo di mamme in meno. C’è poi il discorso legato alle scelte, agli obiettivi e alla realizzazione di questi progetti: non si fanno figli perché costano, impongono dei sacrifici anche di tipo economico; i figli vincolano, dal punto di vista del tempo, del lavoro e questo vale soprattutto per la componente femminile che ha investito nella formazione, che ha l’idea di una carriera brillante a cui deve rinunciare, almeno temporaneamente, nel momento in cui si diventa mamme. Il nostro sistema non consente di conciliare vita personale e lavoro, cosa che invece succede in altri Paesi: alcune donne “sacrificano” la carriera mettendo al mondo dei figli, con conseguenze sulla famiglia anche di natura economica, oppure aspettano e questa attesa diventa tale per cui si diventa mamma sempre più tardi. Mettendo a confronto sei Paesi – Italia, Svezia, Francia, Germania, Romania e Ungheria – e guardando la percentuale di primogeniti per età delle madri, colpisce proprio l’Italia con una percentuale molto alta di primogeniti nati da donne che viaggiano sui 40 anni. Questo perché si aspetta e alla fine il primo figlio arriva a 40 anni e il secondo, molto spesso, non arriva mai”.
A quali risultati deve arrivare l’Italia nei prossimi dieci anni per evitare il crollo demografico?
“L’obiettivo è bloccare la discesa e ricominciare la salita. Gli Stati Generali della Natalità hanno lanciato l’idea di almeno mezzo milione di nati: ora siamo sotto i 400mila, arrivare a mezzo milione non è un obiettivo impossibile. Si può fare, ma bisogna arrivarci in fretta e questo deve essere il primo gradino di una scala che riprende a salire”.
Quanto conta l’apporto delle grandi imprese, in termini di welfare aziendale e assistenza alla genitorialità, nel contrasto alla denatalità?
“Moltissimo. Lo strumento più adeguato è quello della conciliazione perché nel nostro mondo, in cui si fatica e si vuole avere realizzazione di sé, il lavoro è importante e deve funzionare. Guardando al tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 54 anni in funzione del titolo di studio massimo e della posizione familiare, notiamo che le donne che hanno al massimo la licenza media, se sono single, lavorano nella misura del 55%; se hanno un figlio piccolo, il valore scende al 25%. Sulle laureate i valori sono più alti: 95% per le single e 80% per le madri, ma c’è sempre una profonda differenza. Avere un figlio, in qualche modo, allontana dal mondo del lavoro. Dovremmo guardare all’esempio francese, dove c’è una cultura della demografia che va avanti da decenni e che prescinde dalle posizioni politiche. Non possiamo più permetterci di ritardare”.
Poste Italiane è in prima linea contro la denatalità e favorire la conciliazione tra maternità e lavoro è un impegno assoluto. Lo ritiene un esempio virtuoso?
“Assolutamente sì. Dobbiamo fare in modo che ci sia una contaminazione: laddove esistono esempi virtuosi, pubblici o privati che siano, questi devono essere identificati, segnalati, mostrati ad altri imprenditori affinché si intraprendano iniziative che migliorino la qualità di vita dei dipendenti. Poste ha subito una trasformazione enorme. È diventata un’azienda moderna, sia nella struttura sia nei dipendenti, nella mentalità e nella gestione stessa. È una grande azienda con una grande opportunità: l’essere capillare e presente anche nei piccoli paesi. Il mio auspicio è che si possa sfruttare questa potenzialità per essere vicini alle persone, soprattutto in aree e comunità più piccole. Poste lì è presente e avere una struttura percepita ancora come “pubblica”, vicina ai cittadini, può far sentire la presenza dello Stato. È un compito istituzionale: mi piacerebbe che rimanesse quest’idea, perché Poste Italiane è un’istituzione che storicamente, dall’Unità nazionale, ha avuto un ruolo importante ed è bene che possa continuare ad esercitarlo in chiave moderna, con un obiettivo di benessere collettivo”.
(Silvia Paradisi)