Lettere nella storia: il colloquio toccante di “Come d’aria”

C’è un libro piuttosto breve, narra esperienze dolorose, paure e speranze comuni a gran parte dell’umanità. Non vi compare mai la parola “lettera”. In realtà è una singolarissima corrispondenza “d’amorosi sensi” tra una madre e un “tu” che non le può rispondere se non con cenni e contorsioni di una disabile gravissima, entrambi nella stretta quotidiana del mistero del dolore. Un colloquio bellissimo, mai aspro o rassegnato, intenso quanto può esserlo la confidenza di una madre a una figlia che non può rispondere né con la parola né con i gesti e tuttavia percepisce. Nel racconto la madre intende assicurare la figlia che il suo amore, pure messo alla prova, in realtà non è mai mancato. Cosa può venir fuori tra una madre sfortunata, che un cancro consuma e si porta via, prima della figlia adolescente nata disabile gravissima? “Sei Daria, sei d’aria” è l’incipit e la fine del racconto. Il gioco di parole viene spiegato limpidamente nell’inno all’amore nel dolore che il breve volume rappresenta. Si narra una condizione permanente di trauma esistenziale in modo lieve, senza accusare alcuno delle proprie disgrazie.

Il premio Strega e la tragica fine di Ada d’Adamo

“Come d’Aria” è il titolo di quest’unica opera narrativa di Ada d’Adamo, vincitrice dell’ultimo premio Strega, morta di cancro prima di poterlo sapere e ritirare. Daria è il nome della figlia. Il racconto è la memoria storica della madre di una bambina disabile, della propria lotta con un tumore aggressivo e fatale nella quotidiana cura e assistenza di Daria. La solitudine regna sovrana nell’esperienza materna; il gelo cala presto anche tra amiche e conoscenti quando si scopre che la bambina soffre di un handicap gravissimo. Nell’immaginario collettivo la figlia disabile viene rimossa. La solitudine comune a tante donne e famiglie con disabili in casa. Nella narrazione della nascita e della crescita di Daria, vera e unica confidente della sua anima, l’autrice richiama una lettera aperta a Corrado Augias, curatore della rubrica “posta dei lettori” di Repubblica, sul tema spinoso dell’aborto terapeutico. Il dubbio lacerante se farvi ricorso quando il feto ha malattie invalidanti gravi; e il precipitare della donna nella tragedia dove in definitiva resta sola con il proprio dramma. Prima del parto Ada non viene informata del grave handicap della nascitura. Confesserà alla figlia disabile di aver già sperimentato il ricorso all’aborto in una precedente gravidanza. Di fronte a tante avversità, Ada cerca un colpevole. “Forse in tutti questi anni non ho fatto altro che cercare un colpevole. Qualcosa o qualcuno a cui attribuire mille responsabilità di ciò che è accaduto…Perché mi sono ammalata di cancro? Forse avevo qualcosa da espiare”.

Le paure del futuro

Emoziona vedere il passaggio di una madre dal rifiuto inziale della figlia disabile a un amore tenerissimo e crescente, fino a un linguaggio complice e noto solo a loro, all’infittirsi di confidenze e confessioni in presenza di un dolore dell’anima oltre che del corpo quando, consumata dal tumore. Nell’imminenza della morte si angoscia per il “dopo” della figlia quando non ci sarà più lei ad abbracciarla e percepire i suoi segni. Ada riflette con imprevista sapienza. Lei, ballerina provetta, che si ritrova ad agire con la corporeità ferita della figlia. “La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare diritte, tetraparesi spastico-disponica. Clonie, alternanza di ipertono e ipotono, ristagno, sialorrea…altro che mignolo! Fin da principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsivoglia regola”. Sono i bambini che in presenza di Daria hanno pensieri alti e misteriosi: “Quando ci sei tu…pensiamo meglio e con più fantasia e bravura. Tu apri la nostra immaginazione”. Forse l’innocenza ha il segreto di trascendere il peso del male. Nella lotta contro il proprio dolore e quello della figlia Ada affina il pensiero e il sentire interiore sull’umana condizione che solo l’amore può sanare e trasformare. La chiave del mistero dell’essere sta nell’amore: è il suggello delle confidenze materne alla figlia. Le righe finali del racconto, con un gioco di parole sui nomi della famiglia sono rivelatrici… “Appena conosciuti, io e il tuo babbo, avevamo coniato un acronimo a partire dal mio nome. A(di)A: Ada di Alfredo”. Ma anche “Alfredo di Ada”. Poi, quando sei nata, quel “di” che stava a significare il reciproco possesso (io sono tua, tu sei mio) è divenuto D, iniziale del tuo nome. Io, lui e tu nel mezzo, al centro esatto del nostro amore. Un amore d’aria”. Lievissimo e incarnato in Daria che nella sua condizione ha portato al massimo la dedizione per amore. “Un gioco di parole, se ti piace…Finirò di sciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria…”.