Lettere nella storia: la Pasqua con il Cristo di Pasolini

PPP. In Italia le tre P indicano Pier Paolo Pasolini. Definito scrittore corsaro, regista maledetto, profeta inascoltato perché a un secolo dalla nascita, Pasolini continua a parlarci. Anche in una festa speciale come la Pasqua per i cristiani che lui ha inquietato in modo incalzante con il suo film Il Vangelo secondo Matteo, girato nel 1964, mettendo in subbuglio se stesso e sottosopra l’ipocrisia religiosa e civile di misurarsi con il sacro senza cambiare vita. Non un sacro generico, ma storicizzato in Gesù di Nazaret con il quale Pasolini costringe a trovarsi faccia a faccia con un Cristo, non soltanto risorto, compagno del nostro patire spalmato di disgusto e rifiuto, attenuato dalla bellezza. Per andare oltre il dibattito molto acceso, perfino offensivo e divisivo che accompagnò l’uscita del film, gli spunti più preziosi li troviamo nelle lettere del regista che ne raccontano l’iniziale spinta interiore, l’esitazione superata con il dialogo intercorso tra lui, il produttore Alfredo Bini e amici della Pro Civitate Christiana, affatto clericali e aperti invece al dialogo tra cristianesimo e marxismo.

Dalle parole alle immagini

Si potrebbe quasi dire che furono proprio le lettere un’anteprima privata del capolavoro cinematografico di Pasolini immaginato nel suo spirito prima di stamparsi sulla pellicola. “Quanto al mio rapporto «artistico» col Vangelo, – scriveva Pier Paolo al produttore Bini – esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc. per tutti gli anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll’irrazionalismo della letteratura decadente (su cui mi ero formato e che tanto amavo). L’idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo rimette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa”. “Per me – scriveva inoltre a Bini – finora la bellezza è sempre stata «aggettivata», una bellezza morale, o politica. Solo leggendo il Vangelo per la prima volta ho incontrato la bellezza assoluta”. E un maestro dello schermo come resta Martin Scorsese ha dichiarato in proposito: “Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto”.

La risposta

E Pasolini ebbe a dire nella sua corrispondenza: “Non volevo ricostruire la vita di Cristo come fu veramente; volevo fare invece la storia di Cristo più di duemila anni dopo di tradizione cristiana, perché sono stati duemila anni di storia cristiana a mitizzare quella biografia, che altrimenti, come tale, sarebbe stata quasi insignificante. Il mio film è la vita di Cristo più duemila anni di storie narrate sulla vita di Cristo. Era quello il mio intento”. E ritornava a dire in una poesia: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/in ogni mio intuire. Ed è volgare,/questo non essere completo, è volgare,/mai fu così volgare come in quest’ansia,/questo “non avere Cristo” – una faccia/che sia strumento di un lavoro non tutto/perduto nel puro intuire in solitudine,/amore con se stessi senza altro interesse/che l’amore, lo stile, quello che confonde/il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,/ sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,/sulle casupole del Meridione – col sole/della pellicola, pastoso sgranato grigio,/biancore da macero, e controtipato,/ il sole sublime che sta nella memoria,/con altrettanta fisicità che nell’ora/in cui è alto, e va nel cielo, verso/interminabili tramonti di paesi miseri…”.