La posta prima dell’avvento della locomotiva: quando pensieri e oggetti viaggiavano sulle carrozze

Si chiamava Gualtiero ma per tutti era soltanto “il capo”, per il fatto che sulla diligenza della posta comandava lui. È una storia che non ho raccontato a nessuno, prima di oggi, perché non parlo tanto e perché, alla fine dei conti, è una faccenda privata fra me e “il capo”. Il capo è il padre del padre di mio padre, il mio bisnonno insomma, che è campato cento anni parlando pochissimo pure lui. Però, ho scoperto un giorno, amava scrivere. Lo faceva durante i lunghi viaggi sulle carrozze postali, dove ha lavorato una vita come conduttore. C’è una foto che lo racconta, ho trovato pure quella – insieme al diario – nella soffitta polverosa della casa dove abito, che è stata anche la sua: nell’immagine sta a cassetta, l’uniforme grigia di campagna e la borsetta che non mollava mai, quella dei fogli di viaggio. “Mi si chiedeva” scrive “di avere tratti gentili e urbani verso i forestieri, di non fermare la diligenza nelle contrade né davanti l’abitazione del sottoscritto e di non visitare alcuna osteria”. C’è una fierezza, nelle parole del capo, che fa il verso con la descrizione che disegna di certi carrozzoni: “Incomodi e angusti, vere ghiacciaie d’inverno, caldissimi l’estate”.

A due leghe all’ora

Però, a metà Ottocento, erano già il futuro della comunicazione postale e, per certi versi, erano il futuro e basta. “Ebbero l’ammirazione dei nostri padri e la nostra, quand’eravamo giovani” mi spiega il capo con la sua voce lontana centocinquant’anni e la grafia incerta, però sopravvissuta sulla carta ingiallita. “Quando salivamo su una diligenza ci dicevamo: se un acciaio non si rompe, se la strada non è inondata o guasta, se la vettura non s’affonda, se i ladri non ci spogliano, se non rovesciamo e, infine, se giungendo alle stazioni postali troviamo pronti i cavalli che ci occorrono, allora ci paiono adatti i nomi imposti a queste diligenze, a questi velociferi, a queste celerifere! Sentivamo pietà per quelli che, mezzo secolo prima, impiegavano il doppio del tempo a fare il medesimo tragitto. Che bella cosa ci pareva correre due leghe all’ora! Ed era bella davvero, anche da vedere. Eppure tra non molto si sarebbero staccati i cavalli, si sarebbe dato fuoco alla locomotiva!”.

Il pericolo di incendio

L’avrebbe vista, la locomotiva, il capo, anche se soltanto da fuori – complice la pensione – e, dopo una vita sulla diligenza, se ne sarebbe tenuto il più lontano possibile. Dice mio nonno che ci andava a imbucare la posta, ogni tanto, con lo spregio in viso e borbottando frasi tipo: “Noi coi cavalli ci parlavamo!”. Divertente immaginarlo parlare coi ronzini, per uno che di rado scambiava due parole con gli uomini, coi passeggeri che gli sedevano accanto, nei cabriolets. I posti esterni erano i più esposti al freddo ma da lì si vedeva il mondo, e non si doveva scontare il dazio dello spazio angusto e degli odori intensi degli interni di certe carrozze di terza classe. Al massimo quello acre della pipa del capo, che mentre stava a cassetta riempiva la bocca di fumo per non doverla riempire di parole. Se fumare gli fosse consentito o se fosse l’unico strappo alla regola di un lavoro che era una vocazione, dalle sue carte non si capisce. Pare che il pericolo di incendio, forte su quei baracchini di legno ambulante, li esonerasse persino dall’obbligo di sigillare le corrispondenze col fuoco e la ceralacca. Ma ad ogni modo, negli anni che sarebbero venuti, io credo avesse ragione a sentire nostalgia per quel tempo romantico, quando pacchi e persone correvano, stipati insieme fra le assi scricchiolanti, alla velocità degli animali e della natura.

Scambiarsi pensieri e oggetti

“Movimento, progresso!” scrive calcando forte le parole, come per maltrattarle. Ma le oltre cento carrozze postali costruite sulla soglia del secolo scorso, negli stabilimenti belgi di Malines, per portare anche i pacchi postali più ingombranti, erano il segno del tempo che premeva, chiedendo alle Poste di fare il proprio gioco. Così come sarebbe stato per i vagoni postali sulle ferrovie e poi a bordo di navi e piroscafi. Il senso comunque restava sempre lo stesso: consentire alla gente di comunicare, di scriversi, scambiarsi pensieri e oggetti. E farlo con la cura e l’attenzione che metteresti per i pensieri e per gli oggetto tuoi. Questo è pure il significato profondo che il capo attribuiva al suo lavoro, che ho sentito resuscitare intatto da quel diario rinvenuto per caso in un angolo buio del sottotetto, pochi anni fa che sembrano un’esistenza fa. Perché – ed è questa la storia che non ho raccontato mai a nessuno – le narrazioni di quell’uomo, la sua passione feroce, hanno cambiato la mia vita.

La bufera controvento

Più di tutto c’è un aneddoto, fra i tanti che ha descritto: quando racconta che, in mezzo a un temporale che aveva piantato le ruote della diligenza nel fango e pareva volesse capovolgerla e affogarla nella melma, lui fece quello che gli era richiesto dalla professione: pensare prima di tutto al sacco delle lettere, da far arrivare con ogni mezzo alla prossima stazione di posta per proseguire con la staffetta. E questo fece: senza staccare la pipa dalle labbra scese a terra, lo caricò sulle spalle proteggendolo coi suoi stessi indumenti e affrontò la bufera controvento per diversi chilometri fino a consegnarla parecchie ore prima di quando la diligenza sarebbe arrivata. Ecco, ogni volta che attraverso la pioggia della città a bordo del motorino, col cestello pieno zeppo di lettere da consegnare, io penso a lui in quel momento, penso a quest’uomo che aveva il mio sangue e che non ho conosciuto, penso al capo, al suo modo di interpretare un mestiere che mi ha sussurrato dai fogli di un diario vergato a mano, con la scrittura malferma per le buche della strada.

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