Sognare le Poste nell’Italia del boom: c’era una volta il concorso pubblico

Un tempo c’erano i concorsi. La vita della gente passava da queste sale immense, con i banchi della scuola disposti in lunghe file parallele dentro a un perimetro dai contorni sperduti, come se fosse la rappresentazione di un sogno o solo la scena di un film: le pareti erano lontane e per parlare i presidenti delle commissioni usavano il microfono e qualche volta un megafono. C’eravamo tanto amati. Ci sono ancora adesso, i concorsi, ma alle Poste è diverso. L’ultimo è stato fatto nel 1989. Da quando l’azienda è diventata prima un ente pubblico economico e poi una Spa non recluta più personale attraverso concorsi pubblici. E dal 1998 agisce come una società privata a tutti gli effetti. Così queste immagini fanno parte del passato, relegate fra le pagine di un album della nostra storia. Sono le foto in bianco e nero dei nostri genitori e fa sempre un certo effetto guardarle, quei calzoni sopra le caviglie, quei capelli in ordine, i volti sbarbati e i tailleur severi. Era il novembre 1960, prove pratiche per concorso a 1.700 posti per “Ufficiale delle Poste Albo Nazionale uffici locali”, a Roma Nomentano e Roma Prati: 72mila candidati, di cui 42mila ammessi alle prove scritte di cultura generale e di matematica che si sono tenute in 67 capoluoghi di provincia sotto il controllo di 115 comitati di vigilanza. Alle prove finali sono rimasti in 26mila. Ne passano 250 al giorno. Uno di loro è Luciano Colognesi, da Badia Polesine, Rovigo, classe di ferro 1940. Si è iscritto al bando pubblico uscito nel 1958 appena ha compiuto i suoi 18 anni: 1.700 posti da impiegati. Ci ha messo un po’ ad arrivare fino a qui, qualche strike, qualche palla persa, come va la vita di tutti, ma ce l’ha fatta. E adesso non vuole perdere la sua occasione.

Un altro mondo

Il mondo sta cambiando, ma Luciano non lo sa. È così quando vivi le cose. Le capiscono quelli che vengono dopo. Nel 1960, l’oscar della moneta è stato assegnato alla lira, siamo diventati un grande Paese. È l’anno della Dolce Vita. Dalla sede Rai di corso Sempione a Milano il 10 gennaio è stata trasmessa la prima puntata di Tutto il calcio minuto per minuto. Nasce Tribuna elettorale, alla tv, e a novembre va in onda “Non è mai troppo tardi”, corso di alfabetizzazione per adulti. C’è il governo Tambroni, negli States John Fitzgerald Kennedy vince le elezioni mentre l’artista di colore Sammy Davis Jr. sposa l’attrice svedese May Britt nello scandalo generale, perché le unioni interrazziali sono ancora vietate in 31 stati su 50. Luciano manco ci pensa all’America. Sono partiti in tre da Badia per il primo esame scritto a Padova e l’ha passato. Deve pure superare la prova del Morse, che lui non conosce. Va nell’ufficio di Rovellasca e chiede come si fa alle due signorine che sono lì: “Venga, tutti i pomeriggi alle 6 noi chiudiamo il Morse. Così se lei arriva qui noi possiamo insegnarglielo”. La prima lettera che ha imparato è la C: linea punto linea punto. È stato un mesetto e poi le signorine gli hanno fatto l’in bocca al lupo. Ha passato anche quello. Restava l’orale a Roma. Nell’attesa è andato a Milano dallo zio e ha trovato un posto dove lavorava di notte: “Facevo i materassi, si chiamavano di gomma piuma. Ho imparato a fumare, per stare sveglio, e a mangiare i biscotti, sempre per stare sveglio”. Poi è arrivata la chiamata. Si parte per Roma.

Mille lire al mese

Dentro a quei palazzi dove si svolgono le prove, fra quelle mura squadrate e le stanze dai soffitti troppo alti, c’è un mucchio di gente che non ha mai visto. Fra loro ci dev’essere anche Mario Cacciarino, classe 1937. Lui non deve dare l’esame, è già assunto ed è un tecnico, un assistente alla sala telegrafica dell’Eur: i concorrenti devono entrare in una di queste sale allestite con 150 telescriventi e devono fare una prova di trasmissione di un messaggio, o di un telegramma. Se la fanno bene, prendono 50 centesimi di punto. Mario è appena arrivato a Roma. Ha cominciato a lavorare alle Poste da ragazzino, nel 1952, fattorino telegrafico all’ufficio postale di Orvieto: “L’assunzione veniva fatta dal direttore, che aveva un budget a disposizione, per comprare la ceralacca, lo spago, la carta e con quel che restava due fattorini e la legna per il riscaldamento dell’ufficio. Le pulizie le facevamo io e l’altro fattorino, il fuoco d’inverno pure. Primo stipendio, mille lire al mese, che io lasciavo a casa. Cercavo d’aggiustarmi con le mance. Poi sono salito a 4mila, e dopo 4 anni e mezzo a 22mila. Ma restavo un precario. Poi nel giugno ’57 sono stato assunto sempre come fattorino, il primo gennaio ’58 sono passato di ruolo”. Da Terni, dove lavora, lo trasferiscono a Roma. È contento, gli sembra una promozione. Luciano, invece, è arrivato nella capitale pieno di speranze. Le prove orali comprendono nozioni di Diritto amministrativo, Geografia economica e politica, Matematica. Prove facoltative: conoscenza della lingua francese, tedesca, inglese. Alla fine passa, prende pure i 50 centesimi di punto della telescrivente, ma in graduatoria è molto indietro. Però lui è orfano di padre. L’ha saputo da poco, anche se il babbo era disperso in Russia dal 1943. L’ultima sua comunicazione era stata del 9 gennaio 1943, una lettera alla moglie con tutte le spesse cancellazioni della censura e quella frase ch’era rimasta: “Sono in buona salute”. Da lì più niente. Fino a quando Luciano in un bar, sfogliando il giornale, legge di questo ufficio Onore ai Caduti e gli scrive per avere informazioni. Dopo un po’ gli rispondono: suo padre è morto il 29 aprile del ’43. C’è scritto che è “deceduto per malattia”.

Il giuramento

Come orfano di guerra sono tanti punti. Luciano risale la classifica ed entra nei primi 1.700. Passa quasi un anno comunque senza sapere più niente. La lettera che gli cambia la vita arriva l’11 settembre del 1961. È assegnato in fondo al delta del Po, a Contarina e Ca’ Zuliani, acqua e zanzare, e solo una strada stretta che corre sugli argini. “Quando arrivava la cartolina io ho visto gente che piangeva come bambini. Ma perché?, gli chiedevo. Non avevano mai visto un treno. Morivano di paura. Io dovevo fare 105 chilometri per andare a Ca’ Zuliani. Andavo in Vespa. Di qua l’acqua e di là l’argine del Po che ti ammazza se vai giù. La nebbia, un buio pesto. Alla fine una luce lontana. Era una bettola, sono entrato e ho chiesto sapete dov’è Ca’ Zuliani. È questa, ha detto la barista. Mi ha fatto vedere la strada, quello è l’ambulatorio, a venti metri il mio ufficio: questa è Ca’ Zuliani”. Prima di assumere servizio di ruolo l’impiegato doveva prestare giuramento davanti al capo dell’ufficio, o a un suo delegato, in presenza di due testimoni: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene”.

Lacrime e tailleur

Era un’altra Italia, un altro mondo. Mario Cacciarino ricorda che una volta mentre era al bar che prendeva un caffè con il presidente e i membri di una Commissione, gli capitò di scorgere lì fuori una signora appoggiata a un albero che cercava di consolare una ragazzina in lacrime. Andò a chiederle che succedeva? Era una donna piccolina, con un tailleur che le stava stretto: “È mia figlia. Piange disperata perché dice che non ce la fa a passare l’esame”. E perché? Non ha studiato? “Ha passato i giorni sui libri. È che è troppo emotiva, si spaventa di tutto”. Mario provò a rassicurarla. Poi tornò al bar e lo disse al presidente. “Ma è preparata?”, gli chiese quello. Dice di sì. “E allora, non c’è problema”. Andò tutto bene, era bravissima. Prese 8 e fu assunta. Chissà che fine ha fatto. Che anno era? Gli anni ’60, dice Mario. Andavamo in Vespa e portavamo i capelli corti.