Roma, 10 apr – Dalla teoria alla prova visiva: un salto lungo centinaia di anni che dalle speculazioni pionieristiche Mitchell e Laplace porta allo spettacolare successo del progetto Eht, che ha fornito oggi per la prima volta l’immagine di un buco nero.

La teoria della relatività di Einstein, che ne prevedeva esplicitamente l’esistenza, riceve quindi l’ennesima conferma: un avvenimento di portata scientifica storica presentato in sei conferenze stampa mondiali in contemporanea, che rappresenta uno spartiacque per l’astrofisica moderna.

Di fatto, come hanno ammesso i ricercatori, non è possibile escludere a priori altre spiegazioni alternative per ciò che si vede nell’immagine, ma richiedono tutte il ricorso a teorie ben più esotiche della relatività, le cui predizioni – e simulazioni – corrispondono invece esattamente al risultato ottenuto.

L’Eht (Event Horizon Telescope) è costituito da una rete globale di otto antenne radiotelescopiche sincronizzate tramite orologi atomici in modo da poter ordinare i dati ricevuti come se si trattasse di un singolo telescopio grande quanto l’intero pianeta.

Quantità di dati peraltro talmente elevata che non è possibile trasmetterli via internet: vengono infatti immagazzinati in speciali hard disk spediti in un centro di processamento dove un supercomputer provvede ad analizzarli producendo un’immagine del buco nero galattico tanto più nitida quanti più telescopi sono connessi alla rete.

Il progetto aveva come obbiettivo lo studio di due buchi neri sufficientemente massici (e quindi di dimensioni sufficientemente grandi) da poter essere sottoposti ad analisi: il primo è Sagittarius A (al centro della nostra Via Lattea), distante 25mila anni luce e con una massa pari a 4 milioni di masse solari, un milione di volte più grande dei buchi neri stellari.

Il secondo, quello effettivamente fotografato, si trova al centro della galassia M87, distante 50 milioni di anni luce ma con una massa di 6,5 miliardi di masse solari: dal punto di vista degli osservatori le dimensioni angolari sono uguali (pari a una pallina da tennis sulla luna) ma M87 è assai più semplice da analizzare dato che a causa della distanza la sua velocità di spostamento è assai minore – un po’ come fotografare un oggetto fisso rispetto ad uno in movimento.

Per poter ottenere questa immagine era necessaria una risoluzione di circa 50 microsecondi d’arco, equivalente a uno specchio ottico di cinque chilometri di diametro, mentre il più grande esistente misura appena otto metri e con le tecnologie attuali non è possibile andare oltre.

L’alternativa era al’utilizzo di una rete di radiotelescopi sufficientemente distanti fra loro da fornire un’equivalente pari a uno specchio di circa 10mila chilometri di diametro necessari, grosso modo le dimensioni della Terra.