Milano, 10 ott – Solo il 39% delle medie imprese manifatturiere italiane investe direttamente all’estero, il 20% delle quali attraverso imprese controllate, mentre il 19% acquisendo partecipazioni minoritarie. Il 56% investe in attività commerciali che consentono di avere un presidio di vendita in loco mentre solo il 28% punta agli investimenti produttivi, con i relativi stabilimenti. Infine, il 10% degli investimenti è finalizzato all’acquisto di uffici di rappresentanza o show room. E’ quanto emerge da un’elaborazione di Mediobanca.

Relativamente al 61% di aziende che secondo Mediobanca mostra una scarsa tendenza a investire all’estero, ne emerge un 47% che non l’ha mai fatto e un 14% che, invece, potrebbe farlo nei prossimi anni. Questo perché nel 28% dei casi il Made in Italy è vissuto come un vantaggio competitivo; inoltre, le ridotte dimensioni aziendali (20%) e la mancanza di risorse finanziarie (13%) sono elementi che scoraggiano l’investimento fuori dall’Italia. Il 7% delle imprese ha già ricevuto un’offerta di acquisto, ma in 2 casi su 3 ha rifiutato.

Nonostante questo scenario, 9 aziende su 10 esportano fuori Italia (93,1%) e il 46,4% dei ricavi deriva proprio da fatturato estero, ma solo il 25% delle esportazioni raggiunge mercati lontani, sia geograficamente che culturalmente: l’Africa sub-sahariana (8%), Russia (6,6%), Cina (4,3%), Africa del Nord e Medio Oriente (3,8%), Asia Sud Orientale e Oceania (7,6%), Sud America (5,9%). Il restante 75% si rivolge a Nord America e Eurozona. Assente o scarsamente presente è il contributo del Sistema Paese nel supportare le imprese nel processo di internazionalizzazione: il 43,2%, infatti, procede in autonomia, mentre il 23,2% richiede l’aiuto di un consulente privato, il 9,6% si rivolge alle banche e il 24% ad attori istituzionali, (il 7,1% Confindustria, il 6,8% Sace, il 4,1% Simest, il 3% Ccia, il 2,2% Ice, lo 0,5% enti territoriali).

In generale, dall’analisi emerge che l’industria manifatturiera spende ancora poche risorse nel capitale intangibile, come advertising, attività di marketing, servizi post vendita ecc e tende a investire sul capitale tangibile come macchinari, impianti, cespiti ecc. La resistenza potrebbe essere legata a una governance ancora molto chiusa, basti pensare che nel 68% dei casi si registra la totalità dei membri familiari all’interno del consiglio di amministrazione. La redditività infatti è più alta nei casi di governance aperta (+13,2%). La forte resistenza al cambio generazionale è confermata dal fatto che il Ceo familiare rimane nella sua posizione fin oltre i 70 anni di età, mentre il Ceo che non appartiene alla famiglia dà le dimissioni verso i 60 e ha anche un titolo di studio più elevato (laureato nel 58,3% dei casi, rispetto al 41% del Ceo familiare).