In collegamento Skype ai tempi del coronavirus, Gian Antonio Stella mi appare sullo schermo del pc seduto sulla poltrona, il viso dall’espressione simpatica dal quale risaltano i grandi baffi bianchi e folti, gli occhiali da vista di metallo, e dietro una grande libreria di legno chiaro. Ha un modo di parlare spiritoso da raccontatore di razza, “Zio Gas”, come lo hanno soprannominato i colleghi. Maestro dell’inchiesta, è il maggior giornalista-narratore italiano, dallo stile incisivo, elegante e colto, autore di molti libri nati sempre da una urgenza morale e civile. Per lavoro si è convertito alle mail, “internet è fondamentale per le ricerche, per scambiarsi e trovare documenti senza andare negli archivi”, esordisce, lui che da 25 anni non va più in redazione. “Lavoro fin troppo per conto mio”, aggiunge, ma le lettere hanno fatto parte della sua vita e del suo lavoro, da certe “giovanili di amore incontenibile” come le definisce, o delle “sfuriate tremende che ti penti di aver scritto”. Ma quelle fanno parte della vita intima, privata, invece, ne ha ricevute molte di minacce, “non ho mai raccontato guerre, a parte quella in Jugoslavia, ma ho fatto inchieste scomode sui luoghi esposti”, mi spiega, “può capitare di toccare interessi facili da ustionare”.
La banalità del male
Di queste lettere che chiama “infami” gliene sono arrivate diverse, soprattutto negli ultimi due anni nei quali si è occupato molto delle leggi razziali del fascismo: “Ha iniziato a scrivermi un anonimo da Milano, lettere scritte a mano con una grafia elegante in buon italiano”, immagina un signore anziano con la scrittura ferma, uno che scrive, imbusta, mette il francobollo, esce di casa per spedire. Scrive frasi ingiuriose e indicibili contro Anna Frank. “Mentre leggevo mi sono messo a piangere, ho pensato come è possibile che 70 anni dopo Auschwitz uno possa scrivere cose simili? Sono rimasto così colpito, esterrefatto”, continua a dire turbato, “come fosse ignobile”, cita “La banalità del male” di Hannah Arendt.
La ricchezza dei lettori
Comunque nella sua scrivania di via Solferino ne sono arrivate “una montagna”, molto spesso anonime, da decifrare, “molti articoli sono nati da lettere scritte al giornale”, confessa, “è come rinsaldare un rapporto con i lettori che si fidano di me, si rivolgono a me invece che ai Carabinieri, al magistrato, per denunciare uno scandalo, molte inchieste fatte insieme a Sergio Rizzo, come ‘La casta’, per esempio, sono nate da lettere”. Si diverte a citarne una che gli aveva inviato un impiegato di un comune campano, una lettera del segretario comunale, “illeggibile, il burocratese più folle mai visto in tutta la mia vita”, riferisce enfatico, “è finito in prima pagina facendo ridere milioni di persone” sostiene ancora divertito.